MATRIOSKla

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mercoledì 25 aprile 2012

La casa di Magnum P.I.

Tempo fa ho ricevuto un commento ad un post che scrissi sul mito delle Hawaii e di Magnum P.I.
Il ragazzo che mi scriveva voleva sapere dove fosse situata la famosa residenza di Robin Masters, costantemente nominata dal maggiordomo Higgins.
Innanzi tutto la casa esiste veramente ed è una proprietà privata, ad oggi posseduta da Eve Glover Anderson.
La villa si trova sull'isola di Ohau ed è raggiungibile attraverso la Kalanianaole Highway. La località si chiama Lanakai. Poichè si tratta di una proprietà privata, la tenuta non è visitabile, ma si può accedere liberamente alla spiaggia dove il mitico Magnum era solito farsi la sua mezzora quotidiana di nuoto nella incantevole laguna d'acqua azzurra e sabbia bianca, proprio adiacente alla villa. Le spiagge dell'isola di Ohau sono tutte pubbliche e, dunque, ci si può avvicinare molto alla casa, ma a quanto mi dicono fonti amiche, è pressochè impossibile vedere l'intera tenuta dalla spiaggia, perchè quasi completamente coperta da fitta vegetazione e dal muro di lava che delimita il perimetro della casa.
Sebbene, attraverso il telefilm, si abbia un'idea di una proprietà immensa e dotata di ogni sorta di amenità come il campo da tennis, la guesthouse dove vive Magnum, la serra, le stalle e la relativa spiaggia privata, nella realtà le cose sono un po' diverse. La proprietà non è così grande, si tratta di un territorio di tre ettari, nel quale si erge una casa in stile coloniale spagnolo degli anni 30. Molte strutture come il la guesthouse e il campo da tennis esistono, ma gli interni in cui svolgevano le scene della serie sono stati quasi tutti girati agli Hawaii Film Studios. Il chè è quasi deludente se si pensa che non possiamo scindere le avventure del mitico investigatore dalla sua casetta dove era solito guardare la tv in accappatoio o bersi i suoi bicchieri di latte alla sera. Si pensa che sia sempre stato lì, proprio dove la meravigliosa proprietà stava. Soltanto tre scene in totale sono state interamente girate nella casa. 
La ragione per cui fu scelta questa tenuta, per le riprese del telefilm, fu quella per cui essa era collocata in una zona dove si trovava dello spazio anche per ospitare la troupe televisiva e tutto il materiale necessario.
Inoltre, le meraviglie della laguna blu proprio di fronte alla casa erano il posto ideale per pubblicizzare le Hawaii come il paradiso terrestre di proprietà americana negli anni 80.
La laguna viene anche chiamata Pahonu Pond, dove il termine 'pahonu' significa tartaruga e il luogo fu nel passato deputato ad essere una sorta di enorme vasca naturale nella quale ospitare le tartarughe, la cui carne era molto gradita ad un alto capo hawaiiano della storia.
In seguito, fortunatamente, l''uccisione e lo sfruttamento delle tartarughe fu proibito, ma ancora oggi in ricordo di questa caratteristica la proprietà Anderson riporta sul fronte della tenuta una placca con il nome di  Pahonu.

domenica 22 aprile 2012

Duke Kahanamoku - il re del surf

Chi ha inventato il surf? Probabilmente qualche antica popolazione polinesiana, di sicuro qualcuno che annoiato dalla monotona vita su di un'isola deserta schiaffeggiata dalle onde dell'oceano, ha pensato di farci qualcosa con quelle onde.
Però il surf moderno, quello che possiamo far risalire ad inizio secolo scorso, ha un padre.
Si chiama Duke Kahanamoku, nato nel 1890 e cresciuto a Honolulu, un hawaiiano purosangue nato con una particolare predisposizione per tutte le attività acquatiche, in special modo il nuoto e il surf.
La sua abilità di nuotatore gli fruttò record e medaglie d'oro olimpiche da Stoccolma nel 1912, in Belgio nel 1920 e medaglia d'oro d'argento a Parigi nel 1924. Un fenomeno, insomma, che fu chiamato non a caso 'human fish' o 'Duke di bronzo'. Questa incredibile dote di nuotatore lo portò a sviluppare anche quella per il surf, quando negli anni 10 sulle spiagge di Waikiki - dove la maggior parte dei surfisti cavalcava tavole da surf lunghe al massimo 2 metri e 10 cm - cominciò a domare le alte onde della costa di Ohau con tavole lunghe fino a 3 metri. Negli anni successi del decennio, portò il surf sulla costa est degli Stati Uniti e fu lui a esportare questo sport in Australia e in Nuova Zelanda nel 1915, mentre negli anni 30 contribuì a rendere popolare il surf in tutta la California del Sud. Nonostante fu lui il padrino di questo sport, non ne fece mai un lavoro, nè una fonte di ricchezza personale o guadagno e continuò a svolgere tra i lavori più infimi, anche perchè soggetto alle discriminazioni razziali in quanto hawaiiano dalla pelle scura. 
La sua statuaria fisicità gli fruttò ammirazione da parte del pubblico femminile e qualche piccolo ruolo cinematografico a Hollywood, sebbene sempre come figura di secondo piano. Negli anni 60, quando Duke aveva ormai toccato la vetta dei settantanni e aver continuato a fare surf per puro scopo ricreativo, il disc jockey Kimo Wilder McKay diventò il manager di un Duke Kahanamoku, che aveva solo bisogno di conferire una degna iconografia allo sport che era stato la sua intera vita. Per questo motivo diventò il frontman di un piccolo impero commerciale che incluse catene di ristorante, campionati di surf e del merchandise tutto intitolato a suo nome. La sua popolarità aumentò quando apparve sulle copertine di Surfer e Surfing Magazine, quando fu introdotto nella Hall of Fame del surf nel 1966 e nella United States Olympic Hall of Fame nel 1984. Nel 1999 fu insignito del titolo di miglior surfista del secolo dalle riviste specializzate Surfer e Surfing.
Sulla spiaggi di Kuhio Beach di Waikiki, ancora oggi campeggia una statua di bronzo di oltre 5 mentri in piedi vicino ad una tavola da surf, eretta nel 1990.
La figura di questo immenso e fenomenale sportivo fu significativa e congeniale agli gli Stati Uniti per promuovere il surf e gli splendori tropicali di Waikiki nel mondo, ma anche perchè la sua filosofia del surf fu permeata sempre da una straordinaria vena di grazia, humor e generosità. Le sue parole, nel lontano 1965 furono ' Sapete, ci sono così tante onde in arrivo nel tempo, che non dovete preoccuparvi. Lasciate che il vostro compagno le prenda e voi prenderete quelle dopo.'
Davvero quel che si dice uno spirito di sportività. Peccato che le conseguenze della popolarità di questo sport abbiano portato al fallimento dell'ideale di Duke Kahanamoku.

Neil Young - Rust never sleeps

Non so perchè, ma i dischi che hanno fatto la storia della musica, quelli che per esempio entrano nella classifica di Rolling Stone dei 500 album più importanti di tutti i tempi, si riconoscono subito. Il primo ascolto di solito è fatale, ti lascia addosso l'idea di aver appena ascoltato non solo delle canzoni, ma delle vere e proprie confessioni private, di avere aperto il diario personale di qualcuno che voleva dire a se stesso o al mondo qualcosa di speciale.
Ecco qual è stata la mia prima impressione del primo ascolto di 'Rust never sleeps' di Neil Young e dei Crazy Horse del 1979.
Poi, esistono quelle strane alchimie, per cui tu magari scopri casualmente un disco nel momento in cui stai leggendo un libro e ti accorgi che le due cose si fondo senza soluzione di continuità e non capisci se è solo un caso o se una mano invisibile ha unite per sempre questo momento, gettandoti in uno stato di grazia.
Ho ritrovato nel mio lettore mp3, senza ricordarmi da dove arrivasse o perchè, il file di questo disco scaricato da qualche parte. L'ho ascoltato con enigmatica curiosità, così come con lo stesso moto ho letto 'Non è un paese per vecchi' e la miscela è esplosa in una sorta di molotov immaginaria.
Ma, al di là delle mie farneticazioni riconducibili alla mia personale teoria per cui 'tutto è collegato', il disco è un capolavoro di musica folk e rock. 
Tristemente noti sono alcuni versi della canzone che apre l'album 'My My, Hey Hey (Out of the blue)'.
Kurt Cobain, infatti, citò nel biglietto d'addio prima di suicidarsi 'it's better to burn out than to fade away', ovvia citazione di quel brano. Ma non solo, questa è una canzone dedicata alla storia del rock e dei suoi miti all'epoca scomparsi da poco. Elvis Presley e Johnny Rotten dei Sex Pistols. Anche  la seconda canzone 'Thrasher', si trova di nuovo la morte, dove la trebbiatrice ne è una metafora. Neil Young racconta il rapporto suo e dei suoi amici con la popolarità e la facile vita dell'artista perduto nella sua autocelebrazione. 
'Ride my Llama' e 'Pocahontas', invece sono dedicate alla vita e alla storia degli Indiani d'America. Da qui in avanti il disco diventa più rock ed elettrico, meno malinconico, meno disco on the road, ma sempre molto americano. Immaginatevi una macchina scoperta e una giornata limpida e arida nel deserto, i canyon degli Indiani nelle riserve appena lasciati alle spalle, la chitarra diventa un fucile come quello di Anton Chigurh mentre segue la sua prossima vittima, la voce di Neil Young si fa da parte e si acquatta come un cacciatore e sotto l'ombra di un unico albero continua a raccontare quelle storie di confine, di strada, di far west, ma non dalla parte dell'uomo bianco, non come lo farebbero tutti, piuttosto come farebbe qualcuno venuto da Marte.

venerdì 20 aprile 2012

America - una band d'altri tempi e d'altri luoghi

Questa volta non scrivo di una band che conosco. Diciamo che conosco solo un disco, un Greatest Hits, avuto in regalo in seguito ad una promozione, il cui ascolto mi è sembrato immediatamente piacevole. Parlo degli America, una band anglo-americana che si è costituita nel 1970 e che è attiva ancora oggi essendo stata per 40 anni molto prolifica e rinvigorita da cambiamenti di formazione e introduzione di nuovi membri.
Incredibile come una band che vanta straordinari successi abbia resistito così tanto tempo senza aver mai avuto l'appoggio di una casa discografica importante. Il primo disco con una major label, infatti, è arrivato soltanto nel 2007 con la realizzazione di 'Here&Now'.
Il Greatest Hits che sto ascoltando in questi giorni è un disco che definirei rievocativo. Le sonorità della loro musica folk-rock americana mi sembrano, infatti, un concentrato di rock leggero con tocchi di primordiale disco dance anni 70. L'immediatezza e le atmosfere da musica americana della West Coast, ad un primo ascolto, sembrano collegarsi alle felici liriche dei Beach Boys più commerciali. Quello che mi fa strano è pensare che i membri originali della band fossero nati tutti da madri inglesi e padri americani e che siano riusciti, tuttavia, a far trasparire proprio soltanto l'elemento folk americano, trascurando la loro parte britannica. D'altronde non si può che sentire lo spirito americano in canzoni super famose come 'Ventura Highway', 'One in a million' o 'You can do magic', 'A horse with no name' e 'All my life'. Tutti successi che magicamente riportano indietro nel loro decennio di massimo fulgore, cioè quello 70-80 e poco oltre.
Nonostante la loro americanità così esuberante, sono riusciti a produrre piacevole musica ottima per il buon umore.

giovedì 19 aprile 2012

Haruki Murakami - Hear the wind sing

Procedo a gambero. Procedo al contrario, ma per cause di forza maggiore. La mia più recente lettura di Murakami corrisponde al suo primissimo scritto, 'Hear the wind sing'. Si tratta del primo racconto di Murakami pubblicato da Kodansha English Library a grande richiesta del pubblico e dei fan dell'autore giapponese, il quale non ha mai voluto pubblicare questo primo lavoro al di fuori del Giappone, dove invece ha visto la luce nel lontano 1979.
Innanzi tutto vorrei parlare della reperibilità dello scritto, che insieme a 'Pinball, 1973' è praticamente introvabile se non online. Non è mai stato nè tradotto, nè pubblicato in Italia e io l'ho comprato tramite Amazon americano e l'ho letto in inglese. Ho acquistato questi fantastici mini-libri impacchettati come origami, alla giapponese, per la bellezza di ben 25 dollari ciascuno. Le recensioni dicevano che i libri sono pressochè introvabili anche in America e che solo grazie alla pubblicazione internazionale della casa editrice giapponese Kodansha era possibile trovarne la traduzione. Li ho comprati subito, sfruttando il vantaggio della traduzione inglese di Alfred Birnbaum, pensando che era davvero buffo dover leggere la traduzione in inglese-americano, dall'inglese in cui Murakami ha deciso di scrivere questo romanzo. 
La storia è, come molti dei primi romanzi dell'autore, piuttosto seminale. Insieme a 'Pinball, 1973' e 'Nel segno della pecora', viene considerato parte della trilogia del 'Ratto'. In tutti e tre questi brevi romanzi/racconti, infatti, compare lo stesso personaggio con questo soprannome, anche se ha ogni volta un'identità diversa.
E' stato difficile leggere questa storia perchè non si tratta di una vera e propria storia. Non si trovano un'unità di tempo e spazio entro i quali viene raccontata la vicenda. Almeno, non la si trova nella maniera classica. Il protagonista senza nome (defintivo 'Boku' o 'Io-narrante' in giapponese) si trova nel suo paese d'origine per il break estivo dall'università. In quello che viene definito un 'pastiche' letterario, si svolgono piccole vicende di 'personaggi-antenati' di molti altri che si sveleranno nei successivi e più noti romanzi di Murakami. Il protagonista frequenta il bar di J, dove stringe amicizia con il Ratto e incontra una ragazza con la quale stringerà una relazione non ben definita. 
Ho trovato, in questo brevissimo romanzo, tutte le impronte primordiali della narrativa e delle tematiche di Murakami, ne ho intravisto il giovane talento, la vena introspettiva, la ribellione letteraria, che nel lontano 1979 fu considerata come un atto di non sottomissione al filone letterario che il Giappone, fin ad allora, aveva prodotto. In un interessantissimo volume di linguistica e semiotica intitolato 'Haruki Murakami. The simulacrum in contemporary Japanese culture' (di Michael Seats, acquistato in lingua inglese, nella pubblicazione americana), ho potuto leggere le interpretazioni di questo romanzo, le critiche e le opinioni che arrivano a classificare Murakami come il primo scrittore 'urban', 'metropolitano', che introduce i linguaggi e i segni della pubblicità e della società massmediatica, che a quei tempi cominciava a scalciare.
Ancora una volta, un segno di quanto questo autore fosse un visionario precorritore dei tempi.
Per tutti i fans di Murakami, un pezzo che non può mancare, anche per il suo delizioso packaging.

mercoledì 18 aprile 2012

Pet Shop Boys e il pop vecchio stile

Quando penso a loro, penso a due cose: la copertina del disco 'Introspective' e a Londra. Cos'hanno in comune le due cose? Niente. Sono solo ricordi della mia pre-adolescenza. In particolare, ricordo, che la hit di successo di 'Introspective' era 'Domino dancing' e che diventai matta per quella canzone, tanto da comprarmi a 12 anni tutto il disco. Era impensabile non averlo, tanto più che alle feste di compleanno alcuni miei compagni di scuola media lo facevano sempre suonare in vinile sul giradischi. Insomma, proprio un piccolo cammeo d'anni 80, perchè stiamo parlando dell'era pre-mp3 e del 1988, per la precisione il disco fu pubblicato l'11 ottobre di quell'anno.
All'epoca, la loro musica era l'epitome della musica pop europea. Il gruppo composto da Neil Tennant e Chris Lowe chiamato, 'Pet Shop Boys', era nato dopo un classico incontro in un negozio di dischi di musica elettronica a Londra. Il nome, che alcuni amici proprietari di un negozio di animali, avevano dato loro era l'unica cosa difficile da pronunciare e ricordare. Chi riusciva a dirlo a 12 anni era davvero bravo e chi ne conosceva anche il significato ancora di più. Per il resto, ogni canzone che producevano era un successo strepitoso.
Non comprai più alcun disco di questa band perchè, come tutti, mi arrangiavo con le cassette doppiate dai dischi originali, prestate da amici qui e là. A distanza di tempo, ho comprato, qualche anno fa, un doppio cd 'PopArt', che raccoglie tutte le loro hit più belle ed è proprio il caso di dire che è difficile trovare una canzone che non abbia suonato centinaia di volte alla radio, nei loro momenti di gloria. 
In questi giorni di pioggia primaverile, che tanto ricordano i cieli e le atmosfere londinesi, sto riascoltando questo disco. Mentre ascoltavo 'Always on my mind','Heart' ma soprattutto la potentissima 'It's a sin', ho pensato a quanto diversa fosse la concezione di musica pop per questo gruppo negli anni 80. Nonostante le melodie e la musica fossero sempre molto immediate, i testi erano comunque ragionati e intelligenti, improntati sempre a raccontare una storia, una situazione e non solo a cercare di far rimare due frasi insieme senza connessione, come molto altro pop di quegli anni faceva.
Se penso a quanto erano famosi, mi sento tutto sommato contenta di aver vissuto una 'fase pop' a 12 anni, che poco ha a vedere con i gruppi pop propinati oggi ai ragazzini di quella stessa fascia d'età. Insomma, ancora un po' di senno la musica degli anni 80 ce l'aveva. 
Non starò a tessere le lodi di questo gruppo, ancora attivo e infinitamente prolifico, mi limito a seguirlo e ad ascoltare quello che ancora in maniera decorosa e molto inglese, la buffa faccia da 'gentleman' di Neil Tennant mi propone.

Burn after reading - A prova di spia

Un ottimo cast, in panni decisamente inusuali per un film che tocca vette di assurdo parossismo. Ma proprio l'esagerazione rende questa storia eccezionale e fuori dall'ordinario. Sebbene i temi siano alle basi della caducità umana come il tradimento, il culto della bellezza a tutti i costi e la corruzione, essi sono esplorati in una chiave così esasperata da parere ancora più veri.
John Malcovich interpreta Osbourne Cox, un ex agente della CIA, licenziato per motivi fasulli, ma ovviamente strategici. Un giorno decide di scrivere le sue memorie. Ma accidentalmente il cd che contiene dati segreti cade nelle mani di una coppia di personal trainer, Chad e Linda, che credono di poter ricattare Osbourne, sopravvalutando il contenuto del cd. Nel frattempo Harry Pfarrer, interpretato da uno stralunato e paranoico George Clooney, intrattiene una relazione con la moglie di Osbourne e la stessa Linda, in un groviglio di casualità ed equivoci che costituisco il farraginoso intreccio della storia. Proprio l'intersecarsi di situazioni apparentemente così distanti e, tuttavia pericolosamente collegate, costituisce il collante dello svolgimento del film. 
La regia dei grandissimi fratelli Coen fa di questo film un'enorme parodia delle ossessioni umane, pone una impietosa lente d'ingrandimento sui pruriti e le manie di personaggi 'tipo' della nostra società e conferisce un'atmosfera di tragicomica ironia, che mi ha ricordato, a tratti, una sorta di moderna versione di 'Il Dottor Stranamore'. Il film è datato 2008, in una perfetta ambientazione 'asettica' come quella che circonda i panorami di una torva e misteriosa Washington D.C. Mi cruccio solo di aver lasciato sedimentare fin troppo  questo piccolo capolavoro, prima di vederlo.

domenica 15 aprile 2012

Il bicchiere di tè alla russa

Quando vidi per la prima volta sulla tavola russa un tè caldo in una tazza di porcellana bianca vicino alla mia cena, non capii subito bene il perchè. Cosa c'entrava il tè alle 8 di sera? D'altronde era pure piena estate e non sentivo affatto la necessità di bere qualcosa di caldo durante le più che tiepide temperature del luglio moscovita.
Nonostante la mia perplessità dovetti sorbirmi quella tazza di tè, perchè, cosa ancor più strana non c'era altro da bere in tavola; neppure un bicchiere d'acqua.
Dunque, scoprii molto dopo che l'acqua per i russi non era affatto un comune bene di consumo da trovarsi sulla tavola, ma piuttosto una vera e propria bevanda come poteva esserlo la coca, la birra o cose simili.
Ora, a distanza di molto tempo, non posso nemmeno pensare ad una tavola russa, sia essa imbandita a festa o attrezzata per una semplice cena, senza una tazza di tè nero fumante.
Ma la cosa che ha reso divertente e 'molto russo' bere il tè al posto dell'acqua durante i pasti è stato scoprire che il tè si può bere in appositi bicchieri di vetro con tanto di 'custodia'. Per evitare di scottarsi, infatti, esistono dei porta-bicchieri di latta decorati con impugnatura.
Mi è capitato, poi, di vedere nei film, nelle case russe e sulle bancarelle del bazar moscovita di Izmailovo proprio questo particolare bicchiere e dunque non ho resistito..ne ho comprati un paio. Durante quelle giornate di taskà di cui più indietro ho parlato, quel bicchiere è molto più che una bevanda calda, esso racchiude tutto il calore dell'anima russa.


martedì 10 aprile 2012

Non è un paese per vecchi

Giuro che quando ho visto il film non ho capito niente e che l'avevo guardato soltanto perchè se era parlato molto e perchè in generale mi piacciono i film dei fratelli Coen. Poi ho saputo che era stato, tra l'altro, un film super premiato a Hollywood e Co. e dunque mi sono sentita spinta da tutto questo per affrontare la visone di questo film che veniva definito pieno di scellerata violenza.
Ho fatto un'altra eccezione. Ho guardato prima il film e poi ho letto il libro di Cormac McCarthy.
Ho letto il libro per due motivi. Uno per dare al film una seconda possibilità e per capire meglio la storia e due perchè il mio mito Aldo Rock ne ha consigliato la lettura.
Risultato: miglior libro del primo quadrimestre di quest'anno. Una storia semplice e dura, uno spaccato di vita raccontato con il tono asciutto della rassegnazione, un'atmosfera arida come quella del luogo in cui si svolgono i fatti, cioè il confine tra Texas e Messico. La caccia all'uomo è soffocante, claustrofobica e violenta. La fortuna diventa disgrazia nel momento in cui cade tra le mani di Llwelyn Moss, un reduce del Vietnam, che mentre è caccia di antilopi sul Rio Grande si trova sul luogo dove è appena avvenuta una sparatoria di narcotrafficanti. Nel frattempo lo sceriffo Bell e Anton Chigurh, un folle assassino psicopatico si mettono alla ricerca della 'felicità' di Moss e solo la violenza più efferata avrà la meglio. La rassegnazione dello sceriffo Bell, del quale ascoltiamo e leggiamo una voce fuori campo, racconta come la realtà di quei luoghi siano ormai al di fuori di ogni principio e valore. 
Dopo quest'ennesima riprova, sono sempre più convinta che il potere della parola scritta sia molto più rilevante di ogni rappresentazione visiva. Nonostante il senso della vista coroni sempre le velleità della nostra fantasia, le parole raccolgono il silente mistero dell'immaginazione.

Paradiso Amaro o The Descendants

Di solito si consiglia di leggere un libro sul quale è stato basato un film, prima di vedere il film. Questo per una serie di motivi, primo fra tutti perchè ormai si conosce già la storia e poi perchè la nostra fantasia ne risentirebbe.
Ma, nel caso di questo libro ho sentito il bisogno di fare un'eccezione. Non perchè il film non fosse abbastanza ricco di particolari, ma perchè volevo riviverne le atmosfere. In effetti la descrizione del rapporto padre figlia minore è più approfondito, mentre il rapporto padre figlia maggiore è addirittura qualitativamente diverso.
Mentre leggevo il libro, mi era impossibile non pensare alle goffe espressioni di George Clooney, alias Matt, che caratterizzano il film, e questo ha reso, tutto sommato, ancor più piacevole la lettura. Forse, se il film non avesse scelto di dare un'interpretazione velatamente ironica di alcune situazioni grottesche, sarebbe stato solo l'ennesimo film strappalacrime. 
La storia, infatti, è triste e malinconica e la lettura vive un continuo e burrascoso cambiamento di umore che rasenta la tragicomicità. Ancora una volta, penso che tutte le situazioni più particolari siano state ben rappresentate scenicamente nel film e che l'atmosfera dell'isola di Kauai con più cielo grigio, che colori sfolgoranti abbiano aiutato a contribuire al clima di sofferenza e dolore, espresso e vissuto dal protagonista della storia. Difficile dare un giudizio morale alle situazioni che sono accadute tra i protagonisti e che rimangono irreversibili a causa di una tragedia. Forse più umano è capire come il perdono possa arrivare per tutti. Un libro leggero e nello stesso tempo profondo, ma non aspettatevi di trovare la vita scintillante e le atmosfere spensierate delle isole del paradiso; l'amaro in bocca, purtroppo, rimane e per una volta il titolo è stato tradotto in italiano 'Paradiso amaro' dall'inglese 'The Descendants', con una certa cognizione di causa.