MATRIOSKla

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mercoledì 29 febbraio 2012

Surfing magazine

Ho già parlato di una rivista di surf qualche post fa. Ma la mia curiosità e il mio interesse per questo stravagante sport non si sono fermati lì. Dopo aver scoperto Surfer, è stata la volta di Surfing Magazine. Lanciato nel dicembre del 1964 nella California del Sud, (precisamente a San Clemente) come concorrente della ormai affermata 'bibbia del surf' che era Surfer, a quei tempi si chiamava ancora 'International Surfing'. La sua particolarità, negli anni 60, era quella di cercare di mantenere una linea di contro tendenza nei confronti delle mode lanciate e controllate da Surfer. Sul finire degli anni 60 attraversò una sorta di 'fase psichedelica', grazie alla fotografia di un grande come Leroy Grannis e gli articoli di Tom Yasuda. La rivista, però, ebbe particolari difficoltà di gestione e di uscita dal 1964 al 1973, subendo anche vari traslochi tra Hermosa Beach in California e New York City, per poi tornare a San Clemente.
Negli anni 80, grazie ad una grafica e un look particolarmente brillanti e innovativi, riuscì a tenere sempre maggior testa a Surfer e diventò il suo acerrimo rivale. Il seguito di Surfing Magazine aveva sempre avuto, fin dagli esordi, un'età media più vicina a quella degli adolescenti, che non quella più adulta di Surfer. Negli anni 90 e negli anni zero, questa media si è ulteriormente abbassata. E' famosa la frase che nel 1996, l'allora capo redattore della rivista, Peter Townend pronunciò in occasione della sua nuova carica: 'Surfing is Teen Beat, Surfer is National Geographic', per sottolineare come fossero evidenti le differenze di linguaggio e di orientamento delle due riviste.
Personalmente, trovo assai difficile dire quale delle due riviste mi piaccia di più. Sono entrambe stupende, hanno entrambe elementi comuni, tra cui la pubblicità a frotte, le rubriche relative ai campionati di surf e le parti dedicate al materiale tecnico. Quello che mi attira leggermente di più verso Surfing Magazine è il suo essere riuscito a mantenere, a suo modo e al passo coi tempi, una veste ancora leggermente psichedelica. La grafica, il look, le frasi di copertina così introspettive ed ermetiche mi catapultano ogni volta almeno a qualche metro sott'acqua e sono un volo di fantasia ogni volta che leggo i lunghi, criptici articoli. Le frasi gettate qui e là sulle pagine, la fotografia alterata dai trucchi di photoshop, l'impaginazione talvolta disconnessa e accattivante e la parte riservata alla musica e a varie 'extra-vaganze', mi danno emozioni che soltanto i fraseggi musicali dei Beach Boys e dei Pink Floyd della prima ora, mi comunicavano. Sicuramente insieme a Surfer è un punto di riferimento per il mondo del surf e davvero...ormai, non esiste l'uno senza l'altro. Bellissimi tutti e due.

martedì 28 febbraio 2012

La solitudine secondo Murakami

C'è una raccolta di Haruki Murakami che si chiama 'I salici ciechi e la donna addormentata', che è stato edito in Italia l'anno scorso, che contiene innumerevoli racconti dell'autore giapponese di cui vi ho già varie volte postato.
Tra questi, ne esiste uno che si chiama 'Tony Takitani'. Quando lessi questo racconto pensai alle persone che, per natura, preferiscono la solitudine, la vivono come uno stato naturale e ne traggono, per di più, un gran beneficio, tanto da trovarsi nella condizione in cui non vorrebbero che essere soli. Tuttavia, nonostante essi non facciano nulla per liberarsi dalla propria condizione di isolamento, sentono un giorno, un pulsante e improvviso desiderio di sconfiggere la propria solitudine. Questo è quanto si legge dalla storia della vita del personaggio Tony Takitani inventato da Murakami.
Il concetto di solitudine espresso in questo racconto non ha nulla a che vedere con quello espresso attraverso la storia di 'The year of spaghetti'. Qui si tratta di un tizio al quale la solitudine sembra destinata. Qualsiasi siano le deviazioni temporanee della sua vita, il cerchio si chiude al punto di partenza, cioè di nuovo nell'isolamento. Il rapporto distaccato con il padre, l'unione matrimoniale con una donna assorbita dalla sua ossessione per i vestiti, di cui non riesce a carpirne l'origine e nemmeno si cura di farlo se non allo stremo della sopportazione, imprigionano Tony Takitani dentro la sua stessa gabbia di misantropo.
Tipico delle persone sole è il suo attaccamento materiale alle cose e, allo stesso tempo, la frustrazione che prova a possederle senza avere la minima idea di che farsene. I vestiti della moglie sono troppi e troppo legati alla sua figura, i dischi di vecchio jazz della collezione di suo padre sono l'unica eredità davvero personale che lo legano al ricordo del defunto. Eppure alla fine questi oggetti diventano talmente ingombranti nella sua mente, da volersene frettolosamente disfare. Essi sono un rumoroso elemento di disturbo per la sua solitudine, l'ultima cima da slegare per salpare in solitaria verso un definitivo mare di solitudine.
Una visione inusuale è quella che Murakami ha di essa. D'altronde è risaputo che lo stesso autore sia un personaggio piuttosto schivo e che lo sia stato fin dalla sua giovinezza. Forse in questo racconto c'era una volontà di raccontare non un disagio, ma un bisogno, una condizione, una predestinazione.
Un racconto malinconico, un'eco affondata nel cuore del protagonista, una smorfia di laconica rassegnazione.
Tony Takitani è diventato nel 2004 un film pluripremiato del regista giapponese Ichikawa Jun con musiche di Ryuchi Sakamoto.

lunedì 27 febbraio 2012

Un mercoledì da leoni

Un mercoledì da leoni è uno di quei film che non si può non aver mai visto. Come si definiscono i film così? Classici, immortali, evergreen, imperdibili, universali. Ecco 5 aggettivi con i quali potrei definire la natura di questo capolavoro di John Milius del 1978, con una fantastica colonna sonora di Basil Poledouris.
Questo non è solo un film sul surf e sulle vacanze estive, ma un film sul disagio giovanile, sull'amicizia, sulla guerra in Vietnam e sugli anni 60.
Quando Matt Johnson, il più intrepido surfista dei tre amici, si accorge che le mareggiate si stanno susseguendo e che gli anni stanno passando, che la vita lo sta chiamando ai suoi doveri di uomo adulto, che presto lo chiameranno per andare in Vietnam, che amoreggiare con la sua fidanzata voleva dire rischiare di diventare padre e che non era più possibile sbronzarsi e fare a pugni ad ogni festa, per poi finire con una canna in mano, capisce che non è pronto per tutto questo.
Da qui iniziano i suoi guai esistenziali. Quando, dopo essere stato scacciato malamente dalla spiaggia dall'amico Jack, si ritrova a guardare le tavole da surf del negozio dell'amico Bear, è proprio quell'amico a capirlo e a rincuorarlo che 'per tutti il passaggio da un'età all'altra è stato difficile'. Allora si chiarisce tutto. Matt, il matto, è sopraffatto da una crisi d'età e da una sindrome di Peter Pan ormai ingestibili.

Alla stessa stregua del difficile momento che aveva vissuto Banjamin Braddock nel laureato, Matt vive in una maniera più bohemienne - circondato da belle ragazze, steso al sole delle spiagge di Malibù - il triste e malinconico saluto della sua prima giovinezza per entrare nell'età adulta. Solo il surf lo distrae dalle sue angosce e dai suoi dubbi, solo al fianco degli inseparabili Jack e Leroy riesce a sorridere e a divertirsi.
La vita sembrava lunga e l'adolescenza infinita. Le feste sembravano non potessero mai finire e le uscite per mare all'alba sembravano eterne. Invece in un momento ci si ritrova 'grandi', o meglio, il mondo ti chiama a certi doveri. Vigliacca maturità, ti tira per il collo e mentre le tue gambe continuano a girare e a correre in avanti senza guardare da nessuna parte, sei invece costretto a fermarti prima o poi ad un semaforo rosso e a rispettare le precedenze.
Ecco, se guardi questo film a 18 anni pensi: 'ho ancora un sacco di tempo per pensarci'. Se lo guardi a 30, invece dici: 'ecco, mi sono già fottuto i migliori anni della mia vita'. Proprio come Matt. Ma la vita va avanti comunque e bisogna solo gustarsi al massimo il momento. Peccato che da una certa età in avanti, il retrogusto amaro è proprio realizzare di essere cosciente del tempo che passa.

giovedì 23 febbraio 2012

Beatles - The White Album

Non scrivo niente di nuovo se scrivo un post sui Beatles. Tutti sanno già tutto. Nasci, hai qualche anno in più, cominci ad ascoltare la musica e, per prima cosa, sai che esistono i Beatles.
Meno male che sono esistiti, però! Ho passato almeno un anno intero, dai 14 ai 15 anni, ad ascoltare tutte le loro canzoni più famose. Le ho ascoltate così tanto da ricordarle ancora a memoria. Studiavo l'inglese e traducevo i loro testi. Poi, a un certo punto ho scoperto che erano le prime canzoni pop degli anni 60, che delle hit come 'Help', 'Can't buy me love', 'Love me do' e compagnia cantante dovevano aver mandato davvero in visibilio migliaia di persone nel mondo. Così in effetti è stato.
Dopo aver consumato anch'io il loro pop, mi sono presto disinteressata alla loro musica per passare ad altro. Le loro compilation, le loro canzoni troppo inflazionate e usate per ogni sorta di cosa, spettacolo, pubblicità, mi ha velocemente stancato. Forse è un po' l'unico punto debole dei Fab Four, che comunque, favolosi quattro rimango e rimarranno per sempre.
Dopo molti anni, grazie a radio che trasmettono rock, mi è capitato di riascoltare di nuovo i Beatles e ho scoperto che ne sono esistiti in varie modalità. Cioè, dal pop si era passati come niente al rock e alla psichedelia, al folk e alla sperimentazione. Ancora più grandi e sempre più insondabili.
In questi giorni sto ascoltando il gran capolavoro 'The Beatles', meglio conosciuto come 'The White Album' per via della copertina del disco completamente bianca.
E' un disco doppio, pubblicato nel 1968 che contiene, secondo il mio attuale parere, la vera essenza del talento musicale e compositivo della band. Il talento eterogeneo di grandi canzoni come 'Back in the USSR',  ispirata alla 'California girls' dei Beach Boys e scritta da Paul Mc Carteny, 'Happiness is a warm gun', concepita da Lennon come l'insieme di quattro segmenti e intrisa di riferimenti alla guerra, al sesso e immagini reali e artificiali, 'While my guitar gently weeps', nella quale suonò anche Eric Clapton, dove George Harrison sfoderò un un gran pezzo d'autore si era sentito per anni messo in secondo piano dalla popolarità di cui godevano John e Paul. In questo disco addirittura il sempre emarginato Ringo Starr contribuì come autore con la canzone, meno famosa 'Don't pass me by'. 
'The White Album' è stato un album in parte tristemente famoso. Ad esso furono ricondotte le gesta efferate del maniaco e serial killer Charles Manson, che individuando nei Beatles i quattro Cavalieri dell'Apocalisse, pensò che essi avessero scritto quel disco imbottendolo di messaggi subliminali per guidarlo nella sua follia.
E' risaputo che sul frigorifero di casa sua, dopo uno degli omicidi di cui fu incolpato, fu ritrovata la scritta Helker Skelter scritta diversamente e in maniera equivoca, a dimostrazione che Manson era completamente ossessionato da quel disco.
Insomma, non solo le discordanze e i malumori interni alla band, appena tornata dall'esperienza mistica del loro ritiro spirituale in India, trasudano da questo disco ricco di individualità in conflitto, ma anche la leggenda e una sinistra ombra si adagia sulla purezza di questa musica racchiusa in un candido album bianco.
Beatles tutti da riscoprire e ristudiare.

mercoledì 22 febbraio 2012

Anobii, una meravigliosa libreria virtuale

Non amo i social network e non mi interessa avere milioni di amici su Facebook. Avevo cominciato a interessarmi a Twitter, ma lo trovavo un po' riduttivo e adesso sta diventando, piano piano, sempre più gettonato, o meglio, clickato proprio in questi ultimi mesi.
Dunque, era un po' di tempo che volevo catalogare tutti i libri della mia personale biblioteca casalinga. Sarebbe stato un modo per tenere traccia di tutte le mie lettura, ricordarmi cosa ho letto, cosa mi è rimasto in sospeso, cosa vorrei ancora leggere. Sono stata a lambiccarmi un po' il cervello, a pensare come avrei potuto fare, per non perdere troppo tempo a scrivere un elenco di titolo e autore in una interminabile lista.
Finchè un bel giorno scopro il sito di Anobii e per divertimento comincio a vedere come funziona. Sostanzialmente si trattava di creare un profilo personale con tanto di nickname e di libreria virtuale. Come? Inserendo il codice isbn scritto dietro alle copertine di ogni volume che si possiede. E' stato divertente veder comparire su degli scaffali di legno virtuali, tutte le copertine dei miei bei libri. Mi è sembrato di ritrovare un pezzettino di casa mia su una pagina del web.
Ovviamente non ho resistito e in qualche ora ho caricato tutti i libri in lingua italiana e inglese in mio possesso. Sono arrivata a quota 380, lasciando fuori due scaffali di libri in lingua russa e qualche volume vecchio e privo di codice isbn. Subito dopo ho cominciato a curiosare nelle librerie di altri e a contattare qualcuno con il quale, il computer mi calcolava una maggiore o minore compatibilità. Anche qui, come in Facebook, si può partecipare alle discussioni dei gruppi, come in una sorta di forum e si può chattare.
La grande differenza tra questo sito e Facebook, però, è che seppur facendoti gli affari altrui, si tratta pur sempre di affari letterari e di gusti riguardo a letture. Niente di troppo ficcanaso e con un soggetto piuttosto nobile; cioè elargire un po' conoscenza ai nostri simili.
Ideale per avere spunti di letture, opinioni altrui, simpatiche, stravaganti, oppure inutili e odiose. Ideale per fare conoscenza con chi abbia voglia di parlare di un bel libro in qualsiasi momento. Ottimo in caso di bisogno per una rapida consultazione o recensione.
Ogni tanto il web riesce ancora a farmi piacevoli sorprese.

martedì 21 febbraio 2012

Il giovane Holden - J.D.Salinger


Mi ci sono voluti molti anni per scoprire questo piccolo capolavoro della letteratura americana.
Avevo sempre un po' snobbato questo libro e non so perchè. Forse perchè ne avevo sempre sentito parlare come di una sorta di sfogo adolescenziale e dunque limitato ad una certa età della mente. Ma mi sbagliavo. Ho letto 'The Catcher in the rye' prima nella versione in lingua originale e mi sono subito interessata allo strano titolo. In italiano è diventato tutt'altro perchè intraducibile. Letteralmente sarebbe 'l'acchiappatore nella segale'. Ovviamente non aveva senso in italiano e hanno pensato bene di cambiarlo. Ma quello che è interessante è cercare di capire da dove arriva. Da una canzone scozzese di Robert Burns che recita

                                          Gin a boy meet a boy
                                          coming through the rye
                                          Gin a body kiss a body
                                          Need a body cry?
Quando Holden Caulfield sente cantare questa canzone da un bambino per la strada mentre si trova a New York. Il bambino sta camminando sul marciapiede, accanto a lui ci sono i suoi genitori, probabilmente stanno andando al cinema. Ma il bambino sta camminando sul bordo del marciapiede, cercando di seguire una linea immaginaria dritta e intanto continua a canticchiare questa canzone. Holden, a quel punto, crede di ricordarsi il  primo verso di quella canzone, ma se lo ricorda sbagliato, cioè dice 'If a body catch a body coming through the rye'. L'immagine che questo verso gli richiama alla mente è quella di un gruppo di bambini che giocano in un campo di segale, sull'orlo di un dirupo; quando un bambino sta per cadere nel dirupo c'è qualcuno che lo acchiappa al volo, appunto il 'catcher in the rye' (dal verbo to catch, acchiappare).
Ecco, dunque, spiegato l'arcano di questa strana traduzione che non si può rendere bene nella lingua italiana, perchè questa canzone non fa parte della nostra cultura popolare. Alle orecchie dei lettori americani evoca idilliche immagini agresti, probabilmente le stesse che Holden crede di percepire e immagina, mentre ascolta e osserva quel bambino che canta sul bordo del marciapiede. E' davvero poetico e geniale l'accostamento tra il lapsus freudiano di Holden e la capacità di Salinger di gettarci attraverso questo minuscolo ed enorme stratagemma, nelle visioni del protagonista, lasciandoci capire come questo succeda a noi come a chiunque.
La figura di Holden a quel punto diventa quasi per estensione, proprio quell'acchiappatore al volo, che osserva il bambino camminare su un immaginario bordo di un dirupo e in quel momento, come lui stesso dice, sentirsi meno depresso. La canzone e l'immaginaria figura salvifica di Holden lo fanno assurgere ad eroe, gli conferiscono un senso esistenziale e lo consacrano eroe eponimo di tutta una generazione.
Un libro sempre attuale, scritto nel 1951, intriso di ingenuità e purezza di spirito tipica di quei tempi e tipica dell'animo umano nel tormentato luogo e tempo dell'adolescenza. Una vera perla.

lunedì 20 febbraio 2012

Aleksandr Blok e la Bellissima Dama

L'eterno femminino fu raccontato da un grande poeta russo, Aleksandr Blok,
Nato nel 1880 a San Pietroburgo e morto nella sua città natale nel 1921, egli fu il massimo esponente della poesia simbolista russa del primo 900.
Ho scoperto Blok attraverso Majakovskij. Quest'ultimo infatti,, tra i suoi versi ne parafrasò un paio che mi rimasero impressi per la loro sottile malinconia. Erano rivolti ad una donna, perchè entrambi ne hanno celebrato nella loro poesia, l'ipostasi femminile della divinità, la metafora dell'incontro con la realtà.
Di Blok mi piace come riuscì a scandire i suoi tempi poetici attraverso i colori e come riuscì a distribuirli nei tre volumi, che raccoglievano le sue opere. Il primo volume contiene la sua opera più famosa 'La bellissima dama'; il suo colore dominante è il bianco, nel secondo volume è il blu, che simboleggia l'impossibilità di raggiungere l'ideale desiderato e, infine, nel terzo volume domina il rosso, che contiene le poesie del periodo pre-rivoluzionario. La poesia di Blok è tutta intrisa di amore per la sua donna, la famosa 'Bellissima Dama'.
Tra le tante, vi riporto proprio quella poesia di cui Majakovskij parafrasò i versi e che tanto mi ricordano il tempo perduto, la nostra incredulità di fronte alla realizzazione di un avvenimento che credevamo impossibile.

Il ristorante

Che quella sera sia esistita o meno
io non la scorderò giammai: dall'incendio del tramonto
bruciato e dilatato il cielo pallido,
e il suo giallo, i lampioni.

Sedevo alla finestra nella sala affollata.
Da una parte gli archetti cantavano d'amore.
Ti mandai una rosa nera in un boccale
di champagne dorato come il cielo.

Mi guardasti. Io accolsi turbato e insolente
il tuo sguardo altezzoso e m'inchinai.
Volgendoti al tuo cavaliere, con asprezza voluta
dicesti: 'Anche quello è innamorato'.

E subito in risposta le corde esplosero,
gli archetti intonarono frenetici...
Ma mi mostravi tutto il tuo disprezzo giovanile,
e il tremito della mano appena percettibile...

Ti gettasti col moto di un uccello impaurito,
passasti leggera come il mio sogno...
Esalasti i profumi, le ciglia si assopirono,
sussurrarono ansiose le sete.

Ma dal fondo degli specchi mi gettavi sguardi
e nel gettarli gridavi: 'Afferra!...'
E la collana tinniva, la zingara ballava
e gridava al crepuscolo canti d'amore.

giovedì 16 febbraio 2012

Alaska dream - Michele Demai

'Alaska...già la sonorità di questo nome, duro e dolce allo stesso tempo, incanta e strega. Alaska...la Grande Terra. Alaska...l'Ultima Frontiera'.
In questi ultimi giorni di ghiaccio e gelo mi sono fatta consolare da questo bel libro di viaggio. Scritto da una ex-giornalista francese di Antenne2, Michele Demai, appassionata di navigazione, che ha portato a termine 5 traversate dell'Atlantico e 2 del Pacifico, ha percorso più di 80 mila miglia per mare e attualmente vive sulla sua barca a vela.
Ho letto con molta curiosità, e con la mia solita voracità, questo breve racconto di viaggio dal quale ho imparato un bel po' di cose su questa remota terra.
Innanzi tutto che il nome, che come dice l'autrice è davvero evocativo e musicale, significa la 'Grande Terra' nella lingua aleute, parlata dagli antichi nativi, che popolavano questa terra milioni di anni fa. E' una terra immensa, grande quanto mezza Europa occidentale, venduta dai russi il 30 marzo del 1867 agli americani per la cifra di 7 milioni e 2 dollari. Lo zar, infatti, preoccupato dalle guerre europee e dagli strascichi delle guerre napoleoniche, si trovava nei guai con il suo già immenso impero russo, così decise di cedere insieme al territorio anche tutte le risorse minerarie, tra cui oro e petrolio, che vennero scoperte e fruite dagli americani,soltanto in seguito alle vendita. L'Alaska fu tecnicamente scoperta dal danese Vitus Bering, che allora si trovava alla corte dello zar e. In seguito alla cessione, nel 1959, diventò il 49esimo stato e il più grande degli Stati Uniti d'America. 
Michele Demai, costruisce la sua barca Nuage, che in francese rima con Voyage e decide di partire per una traversata che durerà 100 giorni, partendo dalla Francia per passare attraverso lo stretto di Panama e risalire il Pacifico, fino alla sua desiderata e sognata terra. Lo scopo è quello di trascorre un intero inverno ancorati  in una baia e rinchiusi nella barca, provvisti di viveri e attrezzature e sorbire la bellezza pura e incontaminata dell'Alaska. 
Insieme a lei ci saranno anche il marinaio Thomas e l'inseparabile gatto nero Pungo. Dunque, ho imparato anche che un gatto può rimanere su una barca a vela senza rischiare la vita per oltre 100 giorni e che, nonostante il volontario isolamento al quale Michele si sottopone, il gatto non senta la solitudine, nè l'istinto di suicidarsi buttandosi nelle acque gelate dell'Alaska.
Sì, perchè io penso che ci voglia davvero una straordinaria convinzione interiore per affrontare sia le insidie di due oceani, che la solitudine, il freddo, il silenzio, la noia e il nulla bianco che si aprono davanti agli occhi della protagonista e dei suoi compagni, stretti dalla morsa dei ghiacci invernali tra i quali la loro barca è ancorata.

Forse sarà stato il desiderio di vedere spuntare un Myosotis o forgetmenot (non ti scordar di  me), il fiore simbolo dell'Alaska, dalle nevi perenni, oppure di incontrare le balene, le orche, gli orsi, le aquile, o di percorrere gli stessi fiordi, che le 25 varietà di salmone risalgono dopo aver attraversato l'oceano, per depositare le uova e morire e infine sarà stata una personalità incline all'estremo a guidare un'impresa così singolare.
 Penso che ci siano persone prone a questo genere di avventure, che probabilmente, di alcuni luoghi non vedono le cose che di solito vengono descritte e, quindi, preferiscono viverle a modo loro, ma soprattutto devono viverle. L'istinto, il richiamo, l'ardore, la passione di Michele, per questa terra, hanno riscaldato le pagine raccontate in questo libro. Onore al merito. 

mercoledì 15 febbraio 2012

Dire Straits - Brothers in arms

Il disco più venduto degli anni 80 in tutta la Gran Bretagna. Ben 9 milioni di dischi e 35 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Registrato dall'84 all'85, tra Londra, gli Stati Uniti e Montserrat.
Era il 1985 e mi ricordo ancora, sebbene avessi solo 9 anni, che mio padre portò a casa da un viaggio in Inghilterra il vinile dei Dire Straits 'Brothers in arms'.
Ovviamente erano ancora i tempi in cui si comprava musica e la musica vera, sana, geniale esisteva e sarebbe esistita ancora per un bel po'. Mi ricordo che non riuscivo a capire che cosa potesse significare una chitarrona di metallo gigante sospesa in un cielo azzurro, contornato da bianche nuvole.
Naturalmente la chitarra rappresentava l'oggetto della personale abnegazione di Mark Knopfler per la chitarra. La chitarra riprodotta qui era detta resofonica, un modello Gibson che Knopfler suonava.
'Brothers in arms' è uno di quei dischi che bisogna avere. Bisogna soprattutto avere ascoltato almeno una volta dall'inizio alla fine. E' un disco che ha scalato classifiche e che ha sfornato delle super hit degli anni 80 come 'Money for nothing', 'Walk of life', 'So far away'. 'Your latest trick' e ci metterei anche 'Why worry'.
Insomma, un disco che è un successo strepitoso dietro l'altro e che mette insieme generi e atmosfere eterogenee e sofisticate. Ma soprattutto un disco che risente, in maniera positiva, del background culturale di Mark Knopfler, che si è laureato in letteratura inglese e ha anche insegnato per un certo periodo della sua vita. I testi, infatti, sono sempre molto intensi, verbosi, il linguaggio è piuttosto forbito e nello stesso tempo adatto alle tematiche edonistiche, contestate sarcasticamente da pezzi come 'Money for nothing', tipiche degli anni 80. Anche il sound è estremamente anni 80. Credo che, insieme alla voce di Phil Collins, il sassofono, suonato in quella stupenda canzone che è 'Your latest trick', sia una delle certezze di ritrovare nella memoria quel bellissimo decennio. 
'Brothers in arms' è un punto fermo nelle classifiche assolute, nella discografia del gruppo e nella collezione di qualsiasi amante di una buona musica, fatta principalmente di chitarre dal suono pulito e dal ritmo swing, dall'eleganza di questo professore del rock che è Knopfler e dal bizzarro influsso country-folk di cui il disco è pregno. Ho trovato solo un paio di difetti in questa bella opera musicale; il fatto che abbia solo 9 canzoni e che la traccia omonima, che chiude il tutto, sia davvero quasi troppo commovente.


Sanremo 2012 e Adriano Celentano

Inutile negarlo, tutti gli anni seguo il festival di Sanremo. Mi piace la musica e mi piace scoprire nuove canzoni. anche se la musica italiana non tra le mie priorità. Dunque, almeno cerco di ascoltare i cantanti in gara e di evitare tutte le altre buffonate superflue, di cui lo show deve sempre essere inevitabilmente farcito.
Ieri, però, era prevista l'esibizione di un grande: Adriano Celentano.
Ho seguito il suo intervento così come si segue il discorso di un leader. Sì, lo ammetto, mi interessava ascoltare che cosa avesse da dire perchè immaginavo che avrebbe lanciato qualche bel segnale di protesta, qualche bella bomba al vetriolo, che avrebbe fatto sentire una voce diversa da quelle che siamo obbligati ad ascoltare dal solito monopolio opinionista dei vari pupazzi televisivi.
Sì perchè, un'opinione come quella di Celentano, sebbene semplice, a volte ermetica o troppo trascinata, comunque rappresenta sempre la voce dell'uomo comune, l'uomo della strada.
Non mi importa che sia venuto per scopi personali o meno, non mi importa quanto sia pagato, non mi interessa quello che dice un imbecille, ordinario della settaria e oligarchica Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, come Aldo Grasso.
Mi importa solo che almeno per una volta, anche solo per tre quarti d'ora nell'arco di un intero anno, in una trasmissione popolare, un uomo popolare, un mito dello spettacolo italiano come Celentano, abbia detto qualcosa che avrei voluto dire anch'io.
Era davvero ora che qualcuno tirasse in ballo il Vaticano e le sue ingerenze politiche, che si sentisse quanto insulsi siano i goffi tentativi di un progresso a discapito dell'uomo e del suo lavoro di cui ne è un brutto esempio l'introduzione dei treni ad alta velocità e il relativo ben servito dato al personale a bordo dei treni notturni, che sono stati soppressi. Insomma, come ha detto lo stesso Celentano, il popolo dovrebbe essere sovrano. Dovrebbe decidere e avere voce in capitolo, dovrebbe poter avere una voce, diritto di replica e soprattutto dovrebbe rappresentare il destinatario finale di qualsiasi decisione di governo.
Odio la politica. Non la seguo, non so niente, detesto tutto il sistema e i parlamentari falliti e queruli, i 'pappagalli', come li ha cantati Celentano nelle sue canzoni.
Poi c'è un'altra cosa. Ho capito, ho intuito, ho colto dal timbro di voce, dai silenzi, dalle esigue parole di Celentano la sua tristezza. Quando ha detto che l'Italia negli anni 60 aveva una luce diversa...Io negli anni 60 non c'ero, ma anche solo ripensando ai miei anni di gioventù, i 90, se li paragono a quelli di oggi, personalmente di luce non ne vedo. Stiamo solo, tutti quanti, arrancando per trovare il grande interruttore...

martedì 14 febbraio 2012

Welcome to the NHK- Anime

Ventiquattro puntate di ricerca esistenziale, il racconto dei tortuosi meandri della mente di un ragazzo, l'eco della voce di un disagio e un mal di vivere irreversibili, l'umana condizione di isolamento e alienazione, il senso di non appartenenza, la convinzione che dietro il fallimento ci sia una cospirazione e che questa abbia un nome e si chiami NHK: Nippon hikkikomori Kiokai, cioè, l'Associazione degli Hikikomori giapponesi.
Da qui, nasce 'Welcome to the NHK'.

Oltre a questo, aggiungete uno studente fallito, rinchiuso in casa da mesi e impossibilitato ad affrontare il mondo, la famiglia, la gente, gli amici, una relazione sentimentale e auto definitosi hikikomori proprio per tutte le suddette ragioni.
Infine sedetevi comodamente sul divano, per scoprire che forse anche voi vi sentite parte di una gigantesca cospirazione, che vi ha ridotto alla condizione di recluso nella vostra stessa casa, nel vostro ufficio, nella vostra famiglia o nell'intera società e seguite l'angosciante odissea di Sato Tatsuhiro, il protagonista di questo superlativo anime. 

Riconoscerete le marche delle sigarette americane e della birra giapponese, camuffati appena per escludere il problema della pubblicità occulta. Riconoscerete le fitte insegne a spioventi, illuminate dal neon delle vie di Tokyo. Camminerete tra le strade di un remoto, silenzioso e disabitato quartiere della più grande metropoli giapponese, ne sentirete quasi l'asettico odore. Tutto questo grazie alla maestria dei disegnatori  Takahiko Yoshida e Masashi Ishihama, dell'adattamento in anime di un romanzo dell'ideatore e autore Tatsuhiko Takimoto uscito nel 2002 e adattato anche in manga nel 2004. 'Welcome to the NHK' è un romanzo in parte autobiografico, poichè lo stesso autore ha vissuto la condizione di hikikomori nella sua vita reale.
L'acronimo NHK in Giappone, si riferisce alla tv pubblica Nippon Hoso Kyokai, famosa per la trasmissione di anime di grande successo in tutto il paese. Nel romanzo, viene storpiata in Nippon hikikomori Kyokai, proprio perchè, secondo la teoria elaborata dallo stesso protagonista, i mondi paralleli dei manga, dei gadgets, di anime e videogiochi creati dalle società come l'NHK, sarebbero responsabili del fenomeno degli hikikomori. Essi, infatti, forniscono un universo alternativo più bello e semplice da affrontare rispetto alla vita reale.

Credo che il fascino di questa storia, in qualsiasi versione voi la guarderete, si sia avvicinata, forse, alla grandezza di una storia come quella di Death Note. Certo le atmosfere sono diverse, l'introspezione psicologica è diversa, le tematiche anche, ma 'Welcome to the NHK' non è da meno del polverone sollevato dal suo predecessore, che ospitava personaggi altrettanto geniali come Yamazaki, Sato e Misaki.
Se vi siete sentiti almeno una volta nella vita vittime di qualcosa di inspiegabile, se volete sapere com'è la vita di un hikikomori nel Giappone contemporaneo, che ha per compagno un otaku, allora vi piacerà da matti questo anime e il suo strabiliante intreccio.

Bill Bryson e la sua scoperta dell'Australia

Non sapevo niente dell'Australia.
Ma c'è un certo sollazzo nello scoprire che, se leggi Bryson per divertirti, è la volta che riesci anche a imparare un sacco di cose su un paese davvero lontano.
Ma più che lontana, l'Australia raccontata in questo esilarante e sostanzioso volumetto chiamato 'In un paese bruciato dal sole', questo enorme continente perso agli antipodi del pianeta, pare sia sconosciuto.
Secondo le dettagliate informazioni che si acquisiscono durante la lettura, l'Australia sembrerebbe un paese dalla fitta varietà di flora e fauna, per lo più letale, dalla popolazione più pacifica e appagata che si possa desiderare, dalle innumerevoli opportunità di nuove scoperte territoriali e, quello che mi ha colpito più di tutto, è che pare sia il continente più ricco di vuota vastità in assoluto.
Una vuota vastità che può essere mortifera e desolante, se si pensa che inoltrarsi nell'outback australiano significa sapere da dove si comincia e non sapere affatto dove si possa andare a finire. E' oltremodo curioso pensare che il termine outback viene altrimenti detto 'cuore rosso dell'Australia' o anche il posto del 'Never, never' o del 'molto lontano' e, che più che una zona geografica, esso rappresenti una zona ideale senza veri e propri confini, semi desertico e caratterizzato da un terreno di colore rosso perchè ricco di ferro. Insomma, una sorta di approdo su Marte. Esso inizia laddove termina il cosiddetto bush, cioè quella zona geografica di vegetazione arbustiva.
Queste e molte altre stranezze e mistiche rivelazioni si possono ritrovare in un libro davvero ben articolato, a metà tra la guida turistica e il racconto di viaggio romanzato, ovviamente ed immancabilmente condito dell'ironia di un sarcastico scrittore come Bryson.
Sono rimasta colpita da due parti del libro in particolare. Una, quella che descrive l'approccio al Uluru o Ayers Rock e l'altra quella riguardante la descrizione del popolo aborigeno. 
La prima mi ha folgorato perchè sembra richiamare una sorta di attrazione primordiale che l'essere umano sperimenta nella visione di questa monolitica roccia, sopravvissuta al nulla che la circonda. Mi ha colpito leggere le emozioni che Bryson ha provato nel tentare di scrutare una bellezza sublime, quasi quanto il richiamo materno e primitivo del principio dell'essere verso la sua discendenza.
La seconda, invece, mi ha conquistato nel racconto di una popolazione tristemente dimenticata e letteralmente chiamata 'invisibile', come quella aborigena. Una razza che non conosceva, nell'antica lingua, nemmeno un modo per poter dire 'ieri' e 'domani' e che quindi viveva senza un tempo e che non aveva mostrato nessun interesse materiale nell'appropriarsi di oggetti materiali offerti loro dalle popolazioni colonizzatrici. 
Anche se non sono mai stata una grande appassionata di Australia, penso che, dopo aver letto questo illuminante libro, mi si sia accesa una certa curiosità. Se come dice Bryson l'Australia è ancora tutta da scoprire, se il suo vuoto è così misterioso, se un'astronave aliena potrebbe atterrare nell'outback e non essere vista da nessuno per mesi, se dallo spazio l'Ayers Rock è un punto di riferimento rosso che potrebbe guidare un extra terrestre perso nelle galassie, allora penso che tutto questo davvero potrebbe, un giorno, davvero interessarmi. Nonostante i pericoli e le fatalità di una natura totalmente altra da quella di un europeo, penso che un pezzettino di quel vuoto continente, in futuro, potrebbero riempirlo i miei passi.

lunedì 13 febbraio 2012

Ebook ovvero il nemico del libro

La riflessione di quest'inizio di settimana riguarda una delle mie principali passioni: la lettura.
Ieri ho ricevuto due libri in regalo, da mio padre, in lingua inglese. La prima cosa che ho pensato è stata: 'WOW! che bei libri!' e poi, ovviamente, ho subito dato un'occhiata alla quarta di copertina per saperne di più sulla trama e sul genere. I libri in questione, acquistati all'aeroporto di Londra sono 'Siege' di Simon Kernick e 'Lewis Man' di Peter May. Entrambi sono dei thriller ed entrambi hanno una presentazione davvero accattivante.
Inoltre, sulla copertina riportano vari stickers, che definiscono i libri come bestsellers e soprattutto come  occasioni, dato che sono una sorta di 'paga-un-prezzo-intero-per-il-primo-e-la-metà-per-il-secondo'.
Ad una seconda occhiata, ho notato quanta cura e ottimo design fossero riposti in entrambi i volumi.
Uno ha il titolo argentato e in embossing e una sorta di copertina plastificata matte e l'altro una meravigliosa fotografia ritoccata in photoshop. Ma quello che mi piace di più è il formato. Sembrano dei libri di scuola, hanno un format rettangolare, ma più ampio e un font molto grande e riposante per gli occhi. Insomma, ho trovato questi due libri piuttosto singolari e insoliti nella loro veste di presentazione.
Dunque, di ciò, una bibliomane come me può soltanto goderne. 

Ora, dopo aver riposto con criterio i due volumi sullo scaffale - la cui cosa rappresenta un'altra piccola mania per il bibliomane -, ho pensato: 'sarà che siete così belli perchè, miei poveri libri, avete ormai i giorni contati?'
La terrificante risposta a questa domanda è stata: 'E-book...Ebook...Ebook'. Ebbene sì, questo tecnologico mantra, ormai, è qualcosa con cui bisogna fare i conti prima o poi.
Sono certa che i puristi della lettura, come me, storcono il naso. Eppure la curiosità di vedere che cosa un Ebook possa offrire di altrettanto affascinante, come tenere in mano un vero libro, è sempre più incombente.
Ho già visto parecchia gente in giro con i vari modelli di Amazon Kindle, mi sono già informata sulle alternative di altri marchi e ho trovato che, anche la sempre elegante signora SONY propone i suoi bei gioiellini di sorta. Ho visto che ormai sono dei mini computer, con tanto di navigazione in Internet, schermo riposante, sistemi di archiviazione sempre più rapidi e soprattutto materiali sempre più leggeri, così che il lettore Ebook possa non pesare in borsa.
Va bene. Tutto perfetto fin qui. Non dico che non sarò tentata da averne uno e forse solo per sempre più impellenti motivi di spazio in casa, ma come la mettiamo con tutto il resto?

La lista è infinita. La goduria di un bibliomane sta proprio nell'oggetto in sè: il signor libro.
Andare in libreria con l'aspettativa di lustrarsi gli occhi davanti a quelle nuove copertine scintillanti, scegliere il volume in fondo alla pila (possibilmente il penultimo o il terzo dall'alto, a seconda di quanto è grande la pila), sentirne la compattezza poichè intatto e ancora intonso. Ma soprattutto tornare a casa e, come se fosse un giocattolino, spupazzarselo e leggiucchiare le varie informazioni sulla trama e l'autore e infine iniziare a leggerlo, portarselo appresso ovunque,, nonostante il suo formato o il suo peso, 'viverlo' come un oggetto unico e personale, vederlo appoggiato in giro per casa e dulcis in fundo sentire lo scorrere delle pagine tra le dita, avere l'idea di raggiungere un obiettivo - quello di arrivare fino in fondo - e sentire che le pagine diventano sempre più pesanti sulla mano sinistra e che scorrono come scorrono le giornate che si impiega  a leggerlo. Non parliamo poi di quel simpatico oggetto che è un segnalibro infilato dentro al volume. Può essere una cartolina vecchia, un segnalibro di stoffa, disegnato a mano, creato dal legno, una fotografia scattata da qualcuno o lo scontrino del posto dove hai comprato il libro stesso... 
Potrei continuare all'infinito, ma davvero mi auguro che le librerie non spariscano. Così come spero di vedere gente con i libri di carta in mano che li maltratta, che spiegazza gli angoli delle pagine o che fa 'le orecchie', che li riempie di sabbia mentre le legge in spiaggia guardando i colori del mare, non preoccupandosi se i granelli lo possano rovinare. Mi auguro che le case del futuro donino ancora quella sensazione di calore che una libreria strabordante di volumi, di ogni tipo e colore, conferisce ad una stanza e che l'occhio abbia ancora la sua parte, l'anima ancora il suo riempimento, le mani rimangano ancora in quella posizione così intellettuale, come uno studioso perso nella conoscenza.

domenica 12 febbraio 2012

Kauai, la prima isola delle Hawaii e l'ananas


Che l'influenza giapponese nelle isole Hawaii sia dominante, lo so grazie a mie fonti d'informazione segrete...Ma in generale chi ha viaggiato fin dall'altra parte del mondo, rispetto all'Italia, e c'è andato lo saprà ancor meglio.
Ogni tanto mi incanto davanti alla copertina del bel libro fotografico sulle Hawaii che campeggia sulla mia libreria e penso se mai riuscirò a viaggiare fin laggiù. Magari fino a vedere la spaventosa magnificenza di un'isola come Kauai. Dicono che sia la più bella dell'arcipelago delle Hawaii e forse,, chissà se è una coincidenza o meno, per questo motivo il suo nome assomiglia alla parola giapponese 'Kawai', che significa 'carino', 'bello'.
Non sono un'esperta di lingua giapponese purtroppo, dunque non saprei svelare l'arcano...

Oltre a saper parlare il giapponese, mi mancherebbe proprio un bel viaggio in un'isola come questa. Perchè partire per arrivare così lontano? Il fuso orario rispetto all'Italia è di 12 ore indietro e, per arrivarci, ci vogliono almeno due giorni di viaggio contando eventuali stopover negli States.
La risposta, personalmente, la trovo tutte le volte che penso o che ammiro la famosa Na Pali Coast.
Innanzi tutto il nome significa 'le scogliere' e, d'altronde, c'era da immaginarselo visto che Na Pali è un vastissimo ed enorme muro di roccia a picco sul mare, proprio come una scogliera. Questo bastione di origine lavica pare avere un aspetto quasi inquietante e spaventoso. Le scogliere raggiungono un'altezza pari fino a 300 metri e pieghe profonde increspano le pareti scavate dalla forza degli elementi in sei milioni di anni.
L'atmosfera mistica e selvaggia di Na Pali sembra dare al visitatore motivo di viaggiare con la mente verso luoghi magici, con la sensazione di tornare al tempo degli antichi. Le scogliere di questo litorale incorniciano un versante della bellissima Hanalei Bay. Lungo la baia. tra le pareti rocciose e il fiume, si estende una vasta spiaggia di sabbia bianca lunga circa 3 chilometri e, si dice che, la cosa più straordinaria sia che la forma di questa insenatura sembra aprirsi come un sorriso. 
Nonostante la sua bellezza strepitosa, Kauai rimane un'isola scarsamente popolata e sviluppata dal punto di vista occidentale. Fatto incredibile questo, se si pensa che, in realtà, essa fu la primissima isola ad essere stata scoperta dal capitano James Cook nel 1778 e che si tratta della più antica isola dell'arcipelago che Cook, senza preoccuparsi se esso avesse già un nome, chiamò arcipelago delle Isole Sandwich (in onore all'omonimo duca, suo protettore). 
Kauai resta, per lo più, un'isola rurale diversamente dalle altre isole più turistiche delle Hawaii, come Oahu e Maui, dove la maggior parte della superficie è costituita da riserve e parchi naturali. All'infuori dell'unica città, Lihue, le regole edilizie hanno fatto sì che la gran parte degli edifici non superi in altezza una palma da cocco.
La varietà geografica dell'isola è stupefacente. Si passa dalle frastagliate catene montuose a picco sull'Oceano, a paesaggi desertici estremi, che contrastano con le foreste tropicali e 43 spiagge sabbiose che cingono l'isola come in una meravigliosa lei, caratteristica ghirlanda di fiori hawaiana. La maggior parte del remoto e impervio interno dell'isola si può godere solo dall'alto, in elicottero o aeroplano. 
I frutti di quest'isola sono i tipici delle zone tropicali. Dalla canna da zucchero, alla noce di cocco.
Ma Kauai è famosa per essere stata la terra di esportazione verso l'Europa dell'ananas, di cui gli antichi abitanti polinesiani avevano introdotto delle ricche piantagioni già a partire dal 1800. La Spagna fu una delle prime a importare questo frutto. Agli inizi del 900, invece, grazie alla florida fioritura delle piantagioni, aiutate dalle abbondanti piogge tropicali, alcuni imprenditori americani si buttarono nell'impresa di produrre e inscatolare l'ananas. Tra questi, James Dole si distinse per la sua intraprendenza e, da allora, diede inizio al suo business nel continente americano, e poi su scala mondiale, di questo dolce frutto, di questa dolce e fruttifera isola. Probabilmente l'ananas che mangiamo oggi in Europa ha davvero origini che affondano nell'antichissimo e misterioso suolo vulcanico, che ha visto nascere la meravigliosa isola di Kauai. 

Baltika n.3 un vago sapore di Russia

Ho parlato di recente di birra giapponese, ma non posso non parlare di un'altra delle mie birre preferite: la Baltika n.3, anche detta 'klassiceskoe'.
Nel 1995, in uno dei miei primi viaggi in Russia, scoprii questa tozza e panciuta bottiglia da 50cl con una semplice etichetta blu e oro, e questo enigmatico numero che campeggiava sul fronte.
Si vendeva nei baracchini che stavano sui bordi delle strade o sul marciapiede, insieme a sigarette e qualche quotidiano. L'aspetto dei baracchini era ancora molto sovietico e anche il packaging molto nel gusto di una nuova Russia, che doveva ancora prendere le misure con gli standard comuni del design occidentale.
Comprai la mia prima Baltika n.3 proprio in uno di questi baracchini, in un piacevole giorno di agosto, per dissetarmi durante le lunghe camminate per le strade di una San Pietroburgo ancora giovanissima.
I ragazzi di Piter giravano con le bottiglie in una mano e le sigarette infilate nelle dita dell'altra. Una semplice e veritiera immagine di una Russia metropolitana. Io volevo essere una russa e dunque giravo allo stesso modo.
D'altronde non era difficile vedere ragazze bere in piedi di fianco ai baracchini o nei sotterranei antistanti le entrate della metropolitana.
La Baltika, che nel nome già suggerisce la sua ispirazione marinaresca, nasce proprio a San Pietroburgo, che nel bene o nel male si porta dietro la sua nomea di città sull'acqua.
La fabbrica della birra era originariamente chiamata 'Leningrad Association of the Beer Brewing and Nonalcoholic Beverages Industry, anche detta Lenpivo, nel 1978 e si trovava nell'allora Leningrado.
La fabbrica di proprietà dello stato cominciò a produrre birra nel 1990 anche se il marchio 'Baltika' ancora non esisteva e veniva venduta sotto nomi, come 'Zhigulevskoe', 'Rizhskoe' e altri nomi tipicamente sovietici. Solo dopo il 1992, quando l'azienda cominciò il suo processo di privatizzazione, il marchio diventò ufficiale e la sua distribuzione in tutta  la Russia si espanse su larga scala fino al 1997. Negli anni 2000 il gusto e le proprietà della birra si adeguarono completamente agli standard europei.
Ad oggi è la birra russa più famosa nel mondo e, ovviamente, la più venduta in Russia.
Peccato che non ho mai conservato un esemplare di bottiglia Baltika n.3 vecchio stile. Ma ho fatto in tempo a conservarne alcune di altri 'numeri'. Quello che mi divertiva, quando poi tornavo a Mosca di anno in anno, era andare alla ricerca della n.3 che, non capii mai per quale motivo, sembrava introvabile.
Era più facile, infatti, vedere esposte ai soliti baracchini - meno sovietici, ma arricchiti delle solite cavolate occidentali, come chewing gum, caramelle e altro - altre Baltika.
La Baltika esiste dalla numero 0 alla numero 9. Quest'ultima in russo viene definita 'krepkoe', cioè 'forte', arriva agli 8.00% di grado alcolico ed è veramente pesante!
La n.3 rimane la mia preferita. Il suo sapore, al primo sorso, è amaro e corposo come il primo impatto che si può avere con un russo o una russa e il loro difficile idioma. Il suo colore è pallido e dorato come le cupole delle chiese bizantine disseminate negli angoli più impensati di questa landa piatta e solitaria, che è la terra russa.

sabato 11 febbraio 2012

Aldo Rock e la pazienza

Corro ergo sono.

Oggi, dopo 6 mesi di stop forzato, sono tornata sulla strada con un paio di scarpe da ginnastica e bardata in modo ridicolo, per contrastare il freddo. Certo, non ho scelto il momento migliore per tornare a correre, ma l'impazienza di vedere come sarebbe andata mi ha spinto fuori, nonostante le proibitive temperature di questi giorni. 
Non avevo mai corso ad una temperatura di 3 gradi sotto lo zero, nè con due pantaloni della tuta - una aderente e l'altra larga - e tre strati di magliette. Dunque, si può dire, che anche questa è stata una piccola esperienza di podista. In questi giorni, in cui di solito giro per le strade del mio paese chiusa dentro una macchina, ho visto spesso gente giù dai marciapiedi a fare jogging, nonostante il gelo e il pericolo di scivolata sulla neve  ancora ghiacciata. Mi sono chiesta spesso: 'chissà come sarà correre con questo freddo', 'farà male al naso incamerare tutta quell'aria gelida?', 'mi bruceranno i denti e le gengive?'.
Per quel che mi riguarda, niente di tutto questo. Anzi, respirando attraverso la sciarpa si riesce a ripararsi dallo shock termico, il cappello ripara le orecchie e le cuffie per ascoltare la musica aiutano a eliminare gli spifferi e, ovviamente, riescono sempre nel loro intento di portarti in una trance, a metà tra l'estasi per la musica e l'entusiasmo per la corsa in sè.
Mi ci è voluto un po' per convincermi ad uscire con il freddo, ma avevo ancora in testa l'intervento di Aldo Rock su radio deejay di ieri. L'argomento in questione era 'imparare ad avere pazienza nel sopportare i disagi'.
'Girl from the North' del suo amato Bob Dylan e reinterpretata da Sting faceva da sottofondo musicale. Grazie all'ipnotico modo di Aldo di parlare sussurrando, ho rivissuto le scene atroci di 'Alive', un film che ha raccontato la tragica storia della squadra di rugby uruguaiana, precipitata con un aereo nel mezzo delle Ande e sopravvissuta grazie al cannibalismo, di cui poi si seppe, e alla necessaria pazienza di sopportare la sofferenza. 
Dunque, mentre uscivo di casa ripensavo alla soave riflessione di Aldo Rock, secondo la quale, avendo pazienza si riuscirebbe a mantenere la lucidità opportuna per fare la cosa giusta e superare le avversità.
Ho messo nelle orecchie Dylan, ho respirato con la bocca socchiusa, ho tenuto un passo corto e lento, ho costeggiato i marciapiedi facendo attenzione alle macchine e alle lastre di ghiaccio, ho respirato il mio stesso respiro caldo attraverso la sciarpa di lana sul viso e ho calpestato la strada per 15 lunghi minuti.
Dopo 6 mesi di pazienza ce l'ho fatta, dopo un mese di esercizi di stretching comandati dal fisioterapista, dopo mezzora di riscaldamento, - che non avevo mai fatto per impazienza e per questo mi sono infortunata - , ce l'ho fatta! Sono di nuovo in pista. Non vedo l'ora che arrivi la primavera...

venerdì 10 febbraio 2012

Asahi birra giapponese

Non c'è volta che vada al ristorante giapponese e che non abbia voglia di bermi una bella birra fresca Asahi.
Sì, dato l'elevato costo seduti al ristorante per una sola bottiglia da 50 cl, a volte alterno con il tè verde. Ma è davvero raro. 
Mi pare oltremodo superfluo dire che l'aspetto estetico della bottiglia fa davvero la sua parte. Il packaging è bellissimo e io ne sono diventata subito una vittima. Mi piace il rivestimento di pellicola di plastica argentato, l'accostamento dei colori nero, argento e rosso e mi piace il tappo, nella versione di bottiglia da 44cl che si può anche acquistare al supermercato e che, anzichè stappare con  l'apri bottiglia, si può semplicemente scartare tramite una linguetta.
Ma il suo aspetto esteriore non è, ovviamente, il solo motivo per cui mi piace questa birra.
Mi piace proprio il sapore che ha. Si addice perfettamente al sushi perchè ha un gusto secco e delicato e non lascia un retrogusto troppo pesante. Sull'etichetta la scritta in giapponese 'Karakuchi' indica proprio che il prodotto è super secco. Il suo colore è di un giallo dorato abbastanza pallido e la schiuma non è intensa.
Direi che è la perfetta compagna di un cibo raffinato ed elegante come la polpetta di sushi o il sashimi fresco. Non solo, mi piace moltissimo anche per rinfrescare la bocca dopo aver sorbito un buon ramen caldo.
Questa birra nasce dalla Asahi Breweries LTD di Tokyo, fondata nel 1889 sotto il nome di Osaka Beer Brewing company, che dopo aver effettuato un sondaggio sui giovani giapponesi e cercato un minimo comune denominatore, che potesse soddisfare la richiesta e il gusto degli intervistati, realizzò la sua prima birra Asahi super dry nel 1987.
Il suo grado alcolico è di 5.00% e alcuni la considerano una birra di poco carattere. Personalmente, penso che sia  nata con lo scopo di essere una birra di accompagnamento per il delicato e sopraffino cibo giapponese e anche sull'onda di questo crescente trend di apprezzamento per la cultura giapponese nel mondo, risulta ad oggi una delle birre più vendute del pianeta.

mercoledì 8 febbraio 2012

Il fiume segreto - Kate Grenville

Sebbene rientri  nel genere di romanzo storico che, io personalmente, non prediligo ho trovato questo libro una bella sorpresa letteraria, tra le mie letture previste per questo nuovo anno.
'Il fiume segreto' di Kate Grenville è davvero ben scritto. Il suo andamento lineare nella trama, senza troppi personaggi superflui o dettagli irrilevanti e divagazioni alleggerisce l'idea della lettura di un romanzo di questo genere. Dell'Australia non si parla, non si sa, non si legge molto e dunque trovare un bel romanzo, che vada a ripescare gli albori della nascita di questa nazione, è anche cosa rara. 
Dell'autrice si sa che volendo risalire alle origini di un suo parente andò a ripescare informazioni su di lui da enormi volumi storici e genealogici e dunque, per questo motivo, la sua scrittura risulta estremamente precisa e accurata. Quello che mi ha colpito maggiormente è stato il modo in cui vengono descritti posti che, nell'ambientazione del libro, sono zone ancora allo stadio primitivo e quasi palustre. Ad esempio, si parla di Sidney e del suo porto come una piccola cittadina che offriva lavoro, scambi e commercio ai primi colonizzatori bianchi provenienti dalla natia Inghilterra.
Proprio al centro della storia sta  la coppia William e Sal. I due si conoscono fin da piccoli e per unire le forze reciproche di due famiglie modeste, decidono di sposarsi. La loro unione sarà fortissima e immutata fino alla fine del libro. Un giorno, però, mentre i due sono ancora a Londra, William commette un furto, spinto dalla sua condizione di povertà. Questo errore gli costerà la spedizione e la condanna a vita di esiliato in quella che, sul finire del 1700, era la più grande colonia penale al mondo, cioè l'Australia.
Dopo un viaggio estenuante e i primi abbozzi di una vita ai limiti della sopravvivenza, soltanto la cresecente minaccia dell'uomo nero, cioè aborigeno, farà sì che la famiglia Thornhill si sposti lontano dalla vita selvaggia a contatto con la natura ed esploda in una fioritura economica prima inimmaginabile.
Stupenda, tra l'altro, la lotta interiore del protagonista Will tra l'accettazione della convivenza con gli aborigeni e la lotta per l'incolumità propria e della sua famiglia.
Davvero consigliato, soprattutto per appassionati del posto e del genere.

martedì 7 febbraio 2012

Meno male che esistono le deliziose Mauritius


Ogni tanto mi piace pensare che, mentre la nostra vita scorre via nella solita routine, mentre ci laviamo i denti, ci infiliamo i calzini, infiliamo le chiavi nella macchina, oppure addentiamo un panino farcito di prosciutto e formaggio, qualcosa dall'altra parte del mondo, con un differente fuso orario, durante una differente stagione, vive una sorta di ennesima e parallela esistenza.
Immagino che i fiumi scorrono impetuosi, i mari da qualche parte al nord saranno in tempesta, gli animali allo stato brado persi nella savana corrono dietro alle loro prede, oppure una tribù di cannibali tra le isole Marchesi e le Tonga stanno per addentare carne umana, le onde del Pacifico non trovano pace nel moto perpetuo delle acque, e noi? Noi uomini dell'occidente, civili e incivili quali siamo, frustrati o drogati di lavoro, viviamo la nostra pulita e asciutta vita circondati da cemento e automobili, come se volessimo tenere la natura distante, lasciarla nascosta dietro un angolo e dimenticarci che esista.
Domenica scorsa mi è capitato di vedere un posto da sogno. La fotografia qui sopra me la sono portata appresso in questi giorni. Mi piace ricordare quel cappuccio di roccia che sbuca dall'acqua in lontananza, quel verde giardino che pare galleggiare su delle acque evanescenti e la barriera corallina che incombe ai bordi di un quadro da vero paradiso terrestre.
Almeno, laggiù, da qualche parte nell'oceano esiste tale bellezza e me ne rallegro...

lunedì 6 febbraio 2012

Madonna al Superbowl


Va bene lo ammetto, non sono una fan di Madonna della prima ora. Ho cominciato ad apprezzarla quando era già molto in là nel successo e in piena maturità artistica. Si può dire che abbia cominciato a conoscerla con il  disco 'Ray of light', cioè nella sua fase di transizione dal pop al 'superpop' e già quasi al dance.
Con l'album 'Music' mi è scoppiata la Maddy mania e da allora l'ho seguita e amata sempre più. No, non a livelli da strapparmi i capelli, ma la seguo volentieri, mi interessa quello che ha da dire - perchè qualcosa lo dice sempre, nel bene o nel male - , come interpreta i nostri tempi e come cerca di domarli e di farli diventare 'fashionable'. Non ne sbaglia mai una. Ne esce sempre da gran diva e ultimamente anche da signora, quale ormai è diventata.
Questa notte su Sportitalia 2 ho seguito in diretta il Superbowl. Iniziava a mezzanotte al Lucas Oil Stadium ed io ero pronta, come quasi tutta l'America dall'altra parte del mondo, a gustarmi una partita spettacolare tra le mie due squadre preferite di football New York Giants e New England Patriots. Dopo il primo tempo della partita, come già annunciato da tempo, durante lo show d'intrattenimento  si sarebbe esibita Madonna. Erano le due del mattino, ma ne è davvero valsa la pena.
Madonna è entrata vestita da Cleopatra, in uno scenario faraonico in tutti i sensi, contornata da ballerini-legionari che rievocavano le atmosfere dell'antica Roma. Ha iniziato cantando 'Vogue', ha continuato un'esibizione acrobatica con il Cirque de Soleil cantando 'Music' e insieme agli ospiti LMFAO e a Nicki Minaj ha presentato il suo ultimo singolo 'Give me all your luvin' e con Cee lo Green ha concluso un'emozionante performance di 'Like a prayer'. Oltre dodici minuti di visibilio per i veri fans della star.
Decisamente al di sopra di tutti  i vari cloni che esistono in circolazione attualmente, soprattutto Lady Gaga, Madonna ha dimostrato di essere sempre stata una vera e propria perfezionista e regina dello spettacolo. Anche se, probabilmente, alcune canzoni non sono state cantate live, l'ultima di sicuro sì, ed è stata di gran lunga la migliore.
La scritta 'World Peace' comparsa sul palco, inquadrata dall'alto, in chiusura ha avuto il suo straordinario momento di picco. Fenomenale essere ancora così motivati e pieni di energia a 53 anni.
Il 26 marzo il suo nuovo album MDNA dirà il resto.

sabato 4 febbraio 2012

Gli stivali Ugg, il surf e il football americano

La prima volta li ho visti su una rivista di surf. Il ragazzo che li portava era beatamente seduto con tanto di jeans a maglietta a maniche lunghe su una spiaggia deserta e leggermente in ombra. Poi le amiche hanno cominciato a comprarli e Milano, in un attimo, ne era invasa. Ma il massimo è stato quando ho visto uno dei miei miti sportivi, il quarterback dei New England Patriots Tom Brady, diventare 'testimonial' pubblicitario di una marca di stivali così tanto modaiola da aver catturato tutti, alla fine, anche me. Sì, li ho comprati anch'io gli Ugg. Marroni, a mezza gamba e di camoscio con il pelo all'interno. Quando li ho calzati ho capito tutto. Come infilare un piede in un gatto, povero gatto. Il tepore che conservano e la comodità di una calzatura, prevalentemente 'casual', valgono davvero la cifra che costano. Certo, i soliti commercianti furbacchioni che se ne approfittano esagerano anche. Ormai siamo sopra i duecento euro. Ma ormai non riesco a separarmene, potrei paragonare il comfort a quello di una pantofola da casa cicciona e pelosa. Anche l'estetica ne è stata conservata molto finemente, sebbene il primo impatto sembri quello di avere i piedi di un orsacchiotto con il profilo di una papera.  
La Ugg ha una storia molto particolare. Come brand nasce originariamente in Australia e Nuova  Zelanda negli anni 70, ma è soltanto con l'esportazione dei suoi materiali e modelli di stivali più pregiati che diventa un vero e proprio fenomeno di costume in California nei primi anni 80.
Cercando informazioni online, ho capito come mai quel ragazzo con gli stivali sulla spiaggia era finito su una delle riviste di surf che di solito compro.
Pare infatti, che proprio negli anni 60 i surfisti, che passavano mesi interi sulla costa nord orientale dell'Australia ad aspettare le onde, usassero tenere i piedi al caldo e all'asciutto nei comodi stivali di 'sheepskin', cioè di pelle di pecora. Si può dire, dunque, che paradossalmente degli stivali con il pelo e apparentemente invernali siano nati proprio sulla spiaggia, quella di Byron Bay e nelle zone più rinomate di surf vicino, 'The Pass', 'Wategos' e 'Cosy corner', si fanno risalire le più antiche origini del marchio Hugg.
Nel 1978, poi, un surfista di nome Brian Smith arrivò in California carico di borse di pelle di pecora e stivali, sperando che il clima rilassato e sportivo della California del sud avrebbe apprezzato quello stile di stivale. Così fu, da San Diego a Santa Cruz, tutte località di surf gli stivali Ugg diventarono un simbolo della cultura surfista americana. La moda e la mania si spostò, poi, anche nelle grandi città e diventò un trademark, così come Brian Smith lo aveva immaginato. Come si sa, poichè è storia più recente, gli stivali Ugg sono diventati un simbolo estremamente fashion e sono stati esportati in tutto il mondo a partire dagli anni 2000.

Insomma, la Hugg mania ha contagiato tutti.
...Anche il più attraente quarterback dell'NFL Tom Brady, che tra l'altro domani gioca la sua 4 finale del superbowl contro i Giants di Eli Manning di New York, in una grandissima finale tra New York e Boston.
Magari Brady tirerà fuori i suoi Ugg a un certo punto.. 

Toradora! un anime d'altri tempi

Sono una di quelle persone che detesta seguire le news in televisione. Confesso che preferisco rimanere totalmente ignorante dei fatti e sapere giusto il minimo indispensabile, magari attraverso la radio, piuttosto che sorbirmi insulsi telegiornali durante le ore dei pasti.
Dunque, di sera, seguo proprio per l'ora di cena, alle otto e un quarto circa, su un canale digitale che seguo via Internet mi metto a guardare un anime che si chiama Toradora.
Ho iniziato a seguirlo un po' per caso circa un mese fa, ma negli ultimi giorni, le vicende dei vari personaggi si stanno facendo via via più interessanti. 
Toradora è il risultato di due nomi traslitterati dall'inglese al giapponese. Il primo è tora (traslitterazione di 'tiger') e il secondo è dora (traslitterazione di 'dragon'). Entrambi sono le prime sillabe iniziali dei nomi di battesimo dei protagonisti di questo anime.
Nato da una 'light novel' giapponese ideata da Yuyuko Takemiya pubblicata in Giappone in volumi dal 2006 al 2009. Dopo essere diventato un manga a partire dal 2007, dall'ottobre del 2008 al marzo del 2009 è diventato un anime. L'anno scorso è approdato anche qui in Italia e in questi giorni lo stanno ripetendo sul digitale. Gli episodi totali sono 25.
Si tratta di una storia ambientata in un liceo e per questo di solito di usa la definizione 'shojo', cioè quel genere di manga o anime dedicate agli adolescenti. In effetti di problemi adolescenziali si tratta e più che di problemi si parla di vicende amorose: i primi veri innamoramenti tra studenti, gli equivoci e gli intrecci che si creano, i cambi di programma, i vari aspetti della personalità. 
Nonostante, purtroppo, abbia superato da un bel pezzo quella fase, trovo questo anime davvero molto apprezzabile. Mi piace come vengono definiti i personaggi. Ti aspetti che sia il solito anime un po' stupidino e perverso, la classica sceneggiatura da 'otaku' e invece, nonostante una partenza poco accattivante, la storia assume tematiche sempre più serie. I personaggi diventano sempre più maturi e sempre più umani, le storie sempre più ricche di tensione e soprattutto credibili.
Il mio vero interesse nel guardare questo anime è rivolto alla grafica. La riproduzione della realtà è talmente fedele, tanto da renderlo simile ad un film. E' incredibilmente appassionante la cura dei particolari nei disegni delle strade, dei palazzi, del cibo e soprattutto delle strade e dei negozi, tanto che ,per un attimo, mi sembra di tornare in Giappone. Apprezzo moltissimo la professionalità con la quale i disegnatori e grafici costruiscono anime di una bellezza delicata come quella di Toradora. Forse non mi entusiasmano le scelte creative nei particolari dei personaggi. Ryuji, che è il protagonista, ha una faccetta un po' troppo da mostriciattolo e un po' inquietante e Taiga somiglia piuttosto alle solite principessine di un qualunque cartone animato. 
Non amo particolarmente l'aspetto scenico dei manga e degli anime. Mi piacciono le storie, gli aspetti psicologici, i pensieri dei personaggi, le loro relazioni e reazioni e credo che proprio su questo, più che sull'innovazione grafica, si basi la riuscita di Toradora.
Lontano dall'essere una stupida storiella da reality, che ultimamente proprio non reggo, mi estraneo durante l'ora di cena e ritorno un po' adolescente. Quell'ingenuità e quelle fragili speranze che reggono i giovani sembrano ancora quelle dei lontanissimi e ormai superati telefilm degli anni 90. Mi compiaccio del fatto che ancora storie, semplici come queste, riescano a riscuotere un gran successo di pubblico.