MATRIOSKla

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giovedì 26 gennaio 2012

Vasilij Aksenov - Il biglietto stellato

Una scrittura semplice e immediata, una sottile speranza che pervade la storia di due fratelli con due opposte visioni del mondo. Il maggiore, Victor, studente modello di una facoltà scientifica di Mosca, deve presentare la sua tesi di laurea davanti alle più alte cariche del suo corso, ma la voglia di sovvertire le procedure, le regole e di svelare le proprie, lo tormenta fino al lancio della monetina che lo porterà ad una scelta definitiva. La sua volontà è scritta su di un quaderno azzurro, che raccoglie una nuova verità. Quando Victor si troverà di fronte alla commissione, la sua ingiuriosa invettiva scagliata contro il professore più eminente, gli costerà il suo stesso futuro. Il destino di Victor è segnato da una vita scelta da lui dai suoi genitori e da un unico spiraglio di cielo, che tutte le sere vede dal soffitto della sua stanza. Quel punto sopra la sua testa somiglia ad un biglietto del treno perforato di stelle. Victor è anche il neutrale confessore del fratello minore, Dimka, che, con un lancio pilotato della monetina, deciderà di intraprendere un viaggio iniziatico verso l'Estonia per dare una svolta alla sua vita. Lo farà portandosi dietro il suo gruppo di amici sgangherati e la sua amica d'infanzia Galia. Ma i piani, seppur ben progettati, di entrambi i fratelli, subiranno brusche inversioni e inaspettati epiloghi.
La malinconica voglia di ribellione in un' Unione Sovietica cieca e paralizzante, segna le pagine di questo libro ,che testimonia l'ennesimo fallimento della società comunista nei confronti di una generazione, che sognava la libertà in qualsiasi veste si presentasse. Che fosse la pesca alle acciughe di cui Dimka si appassiona, in un mare sempre in burrasca come il suo procedere senza una precisa meta o quella di Victor, che verso quella meta avrebbe solo voluto tenere fermo tra le sue mani il timone e procedere a tutta forza, guidato da un cielo perforato di stelle.

mercoledì 25 gennaio 2012

Surfer Magazine

La mia prima rivista di surf specializzata l'ho letta nel maggio del 2009. Si trattava di Surfer, che viene considerata una sorta di bibbia del surf. E' davvero una pacchia sfogliare le pagine di Surfer. Di solito si comincia con un bel po' di pubblicità, che all'inizio mi infastidiva, perchè mi pareva che un terzo del volume fosse già stato sprecato. Poi, ho cominciato a prestare attenzione ai prodotti pubblicizzati e mi sono appassionata alla moda 'urban-surf': camicie di flanella a scacchi Billabong, infradito colorate da spiaggia e da città, sneakers della Vans, felpe della Roxy, orologi Nixon e cuffie per ascoltare la musica della Skullcandy. Insomma uno sciame di merchandise che gira intorno ad uno sport da sogno. Ma la rivista assume la sua veste più tecnica nei lunghi articoli e nelle interviste ai grandi campioni, sulle loro imprese, vittorie e viaggi. Sì, perchè il surf mi ha attirato, soprattutto, per questa meravigliosa attitudine che i surfisti hanno nello scoprire posti incontaminati e remoti, dei quali si sente raramente parlare, almeno qui in Europa. Il viaggio, per un surfista, è parte della disciplina sportiva di cui si occupa. Trovare il giusto 'spot', conoscerne le condizioni climatiche ed atmosferiche, scovare un posto dove sistemarsi per la breve notte che lo separerà dall'uscita all'alba, la cosiddetta 'dawn patrol' e infine godere delle meraviglie della natura che circondano un oceano il più possibile infuriato. Attraverso questa rivista ho scoperto la fotografia estrema e mi sono appassionata, sempre di più, allo scatto del gesto acrobatico dell'atleta, sullo sfondo celestiale di colori e luci immortalati per rendere la bellezza dei luoghi. Dunque, leggere Surfer è un po' come farsi una cultura di geografia e arte grafica allo stesso tempo. Non solo le stupende fotografie corredano la rivista, ma si nota un'estrema cura nella grafica, una costante e innovativa ricerca nell'impaginazione e nella fruizione della lettura.
Qui e là si trovano alcune rubriche d'obbligo per una rivista: l'angolo della posta, qualche pettegolezzo e notizie delle varie competizioni nel mondo.
Quando mi immergo nelle pagine di Surfer, mi immergo in un oceano caldo e allo stesso tempo burrascoso.  Viaggio mentalmente, con trasporto e oblio, verso mete lontanissime. Di certo, un modo per fuggire, per un momento, il grigiore della vita cittadina e lo squallore di paesaggi dove la natura è completamente schiava dell'urbanizzazione.

lunedì 23 gennaio 2012

Due vite in gioco

Ho di recente parlato delle canzoni d'amore di Phil Collins e, proprio per amore della canzone 'Against all odds', ho deciso di vedere il film del 1984, che porta lo stesso titolo della canzone nella versione originale, ma che in italiano si chiama 'Due vite in gioco'.
Diretto da Taylor Hackford e interpretato da un fisicato Jeff Bridges e da una languida Rachel Ward, il film è il remake di un'altra pellicola chiamata 'Out of the past'.
Jeff Bridge, che nel film si chiama Terry, è un giocatore di football che sta per essere scaricato dalla sua squadra. Quando viene incaricato da Jake di ritrovare la sua fidanzata Jesse, sparita da qualche parte in Messico, Terry rimane colpito dalla bellezza della donna e i due si innamorano.
Tipica trama da anni 80, costellata di tradimenti, scene d'amore molto sensuali ed esplicite, scenari tropicali dai colori sgargianti, corruzione, malavita e infine sparatorie, il film si chiude su una scena piuttosto triste. Ma soprattutto si chiude con la canzone colonna sonora, appositamente scritta per il film di Phil Collins 'Against all odds'. Gli sguardi affranti dei due innamorati, che non possono più stare insieme e sono costretti a separarsi, l'impotenza ad agire di Terry e la mesta rassegnazione di Jesse costituiscono il fermo immagine sul quale scorrono i titoli di coda e si dipana la melodia della canzone. Le parole di quest'ultima, che come dice la biografia di Phil Collins, furono scritte per esprimere lo stato d'animo del cantante lasciato dalla ex moglie, si adeguano bene all'amore impossibile dei due protagonisti e all'atmosfera di continua tensione che finalmente si scioglie sulla musica, seppure non in un finale a lieto fine.
Per chi vuole rivivere un po' di atmosfere di quei tempi, aspettare per quasi due ore la canzone di Phil Collins e rimuginare sul fatto che gli anni 80 siano stati davvero belli e dannatamente finiti, anche da un punto di vista economico e sociale e non solo dal punto di vista della moda e del folclore, questo film è davvero molto rievocativo. 

domenica 22 gennaio 2012

The wave - Susan Casey


Un nuovo anno di letture è già iniziato. Tra i primi libri che ho già letto questo mese, ce n'è uno, in particolare, che ha catturato la mia attenzione. Si tratta di 'The wave' di Susan Casey. 
Il titolo è in inglese e non so se sia mai stato pubblicato in Italia finora; nelle mie ricerche non ne ho trovato traccia. Comunque, se vi capita di leggerlo in lingua originale, tanto meglio. Di certo, vi servirà per imparare nuovi aggettivi della lingua inglese per descrivere le onde. Seppur ispirato dalle gesta straordinarie dei più grandi surfisti estremi del mondo, questo libro parla di onde. Anomale, gigantesche, infuriate, spaventose, assassine, imperscrutabili, imprevedibili, sconosciute.
Già, perchè nonostante si pensi che le onde siano generate dal vento, rimangono ancora molti interrogativi riguardo alla vera causa scientifica per cui le onde si formino negli oceani. Si parla di energia, ma non si sa da dove arrivi quest'energia, nè da cosa sia generata, nè dove vada realmente a finire.
Dunque, questo libro non parla solo di surf, di imprese al limite delle capacità umane e di sopravvivenza, ma anche di quanto poco si conosca a tuttora delle tempeste marine, degli tsunami e delle semplici onde, che imperversano negli oceani a largo di isole e coste dei vari continenti. Centinaia di navi cargo vengono travolte con una media annua impressionante, di alcune, spesso, non si trovano più nemmeno superstiti o non si hanno notizie a distanza di pochi minuti dal lancio dei primi SOS. Insomma, in questa lettura, travolgente coome le onde stesse, trovate racconti di luoghi e genti che hanno conosciuto la furia dell'oceano. Dalle Hawaii, alla Polinesia, da Mavericks, al Messico e l'Alaska, l'anello di fuoco continua a tenere il mondo segretamente prigioniero tra le sue acque minacciose. Una lettura quasi avventurosa...

venerdì 20 gennaio 2012

Donnie Darko e l'eccellenza

Uno dei film più geniali della storia del cinema. Un film che è un insieme un'opera psichedelica, onirica e un rompicapo che non ha mai fine, un labirinto di sensazioni e di possibili soluzioni. Pochi altri film mi hanno così completamente catturato.
Parlo, o vorrei parlare, di Donnie Darko, anche se trovo estremamente difficile poterlo fare, senza cadere in una sorta di spirale senza fine. Nonostante sia uscito ormai più di dieci anni fa, nel 2001, è un film senza tempo.
Diretto da Richard Kelly e ambientato in pieni anni 80, Donnie Darko è la storia di un ragazzo con disturbi della personalità che si trova a vivere una strana vicenda al limite tra il reale e il surreale e a metà tra la fantascienza e l'esoterismo.
Il film inizia con la scena dello schianto del motore di un aereo sconosciuto, che piomba sul tetto della casa di Donnie Darko mentre lui si trova nella sua camera in soffitta. La logica conseguenza di ciò è che egli rimanga vittima e muoia in seguito a questa tragica fatalità.
Diementicavo...Jake Gyllenhall è davvero magnifico in questa interpretazione e la musica è semplicemente struggente. Al solito, un ottimo connubio di arti.
Ma da qui in avanti il film si muove in un labirinto 'spacca cervello' tra ciò che può essere successo e quando tutto ciò che vediamo davvero succede.
Darko è perseguitato da Frank, un gigante coniglio vestito d'argento che diventa una sorta di amico-nemico immaginario e che gli comanda le azioni più insulse, fino allo svelamento dell'uccisione di Frank stesso. MA chi è Frank? E perchè è nel passato di Darko, se in effetti egli compare solo nel futuro? Questa è la domanda che tra le tante, che credo di essere riuscita almeno ad interpretare, tuttora mi è rimasta inspiegata.
Da qualsiasi parte si entri nella trama di questo fitta intessitura narrativa, la coperta sembra coprire un lembo del ragionamento e lasciarne sempre scoperto un altro.
Certo, non si può discutere questo film se non si è disposti ad avere almeno un minimo di propensione a credere che esistano i viaggi nel tempo, che la fisica quantistica sia ancora un enigma da svelare e che la scienza potrebbe portare alla nostra conoscenza mondi sconosciuti. 
Ma al di là di tutto, di questa miscela esoterico-scientifica è davvero potente il modo in cui la storia fonde in maniera umana il modo in cui Donnie cerca di ricomporre a suo modo la storia sacrificando se stesso e salvando tutti gli altri.
Se i viaggi nel tempo sono possibili, allora Darko ha potuto salvare il futuro, ha scelto di svanire nell'occhio del tempo e di lasciare in vita tutti gli altri. Ma come fa? Come fa Darko a sapere che il tempo ha un tunnel segreto dal quale si può tornare indietro? Ecco qual è il plus valore di questo personaggio. Egli come un 'folle di dio', come un ingenuo 'idiota' - nel senso dostoevskiano del termine- è il mezzo, il messia di questa scoperta. La psiche di Darko è 'altra', ecco perchè comprende.
E' meraviglioso come questo film sembri un'anticipazione di quello che scienza tenta di spiegare in termini matematici. E' meraviglioso come la forma di questo frame cinematografico sembri curva, tanto quanto la presupposizione che l'universo stesso lo sia, come perpetrato dalla famose teorie delle stringhe.
Come sempre l'arte si avvicina in modo assai pericoloso alla verità e poi ne è così trafitta da non riuscire più a chiudere la bocca spalancata dello stupore, per poterlo spiegare in termini conoscibili.

Non starò a spiegare come ho capito questo film o se penso di averlo fatto. In verità, ogni volta che tento di farlo devo rivedere il film perchè è difficile tenere a mente la conclusione in maniera logica. Dunque non lo farò. Piuttosto, quando crederò che ci sia ancora qualcosa da capire di questo, a parte la sua genialità, semplicemente mi preparerò ad un altro viaggio nel tempo, accenderò il lettore dvd e ripercorrerò quella distanza a ritroso, quella distanza che divide la pseudo-divinità di Darko dalla profanità della mente comune.
Più che un film è un ologramma, un'esperienza della percezione, un'entrata in uno spazio-tempo distorto, disturbato e un possibile approdo in un mondo tangente e parallelo.

giovedì 19 gennaio 2012

Phil Collins mi ha spezzato il cuore...

Non riesco a pensare a Phil Collins e a non pensare alla sua decisione di ritirarsi dalle scene di qualche tempo fa.
Nonostante sia stato un artista molto prolifico e quindi ci si possa consolare con moltissima sua musica, per me non è mai abbastanza. Così come non è mai stato abbastanza ascoltare centinaia di volte gli stessi suoi dischi, le stesse sue meravigliose, intramontabili, interplanetarie canzoni.
L'essenza di Phil Collins come cantante solista, dopo l'avventura con i Genesis, si ritrova in un grandissimo disco come '...But seriously'. A detta di tutta la critica questo è il suo capolavoro.
'...But seriously', del 1989, nel quale hanno collaborato anche Eric Clapton e Stephen Bishop, ci ha regalato delle hit indimenticabili come 'Do you remember?', 'Something happened on the way to heaven' (che fu addirittura suonata durante un episodio della serie 7 di Magnum P.I.), 'I wish it would rain down' e soprattutto la famosissima 'Another day in paradise', che nonostante il titolo ingannevole, parlava dei senzatetto e della nostra indifferenza ad essi.
Phil Collins ha raggiunto l'apice del suo successo nel decennio degli anni 80, ne è diventato un simbolo e la sua voce ha il potere di rievocare quei tempi, così come i suoi assoli di batteria, dove in canzoni come 'In the air tonight' facevano tutta la bellezza e l'andatura del pezzo e gli assoli di tromba, che tanto andavano e che hanno davvero spopolato, in canzoni come 'Sussudio' e 'Saturday night and Sunday Morning'. 

Ma c'è un disco doppio, che più precisamente è una raccolta, che per me personalmente rappresenta l'essenza di questo immenso, poliedrico, eclettico, instancabile artista, si tratta di 'Phil Collins love songs'.
Nonostante io non ami più molto, con lo stesso entusiasmo di un teenager, le canzoni d'amore, esse hanno segnato alcuni momenti romantici e non della mia adolescenza. Quelle di Phil in particolare ne sono state proprio un'intera colonna sonora, che io allora pensavo scritte soltanto per me!
La prima esplosione di dolore, mista a quella sofferenza che da giovani si tende quasi ad autoinfliggersi, è legata a 'A groovy kind of love'. Non dimenticherò mai con quale compassione e compartecipazione vidi per la prima volta il video. Phil era seduto in una sorta di scantinato buio, aveva accesso il proiettore e si era messo a riguardare, fumando una sigaretta, le immagini di 'Buster', il film di cui la canzone era colonna sonora e lui stesso protagonista. Una canzone struggente, impossibile non amarla. Durante un viaggio in Florida proprio del 1989 avevo fatto una cassetta con il lato A pieno solo di quella canzone e l'ascoltavo in uno scintillante walkman Sony nel retro della macchina. Mi sentivo già di aver oltrepassato l'apice dei dolori del giovane Werther!
Allo stesso modo è impossibile non passare attraverso la 'fase adorazione' di 'Against all odds', anch'essa canzone del film 'Due vite in gioco', cantata, urlata e pianta da schiere di adolescenti in piena fase puberale a partire da quel fatidico anno 1984 in cui fu realizzata.

Penso a quanto possa essere sensibile quest'uomo, che ha cantato il dispiacere della sua separazione dalla moglie in molte canzoni come 'Separate lives' e che nel 1981 cantò a Top of the Pops 'In the air tonight' con un secchio e un pennello sul pianoforte, perchè aveva saputo che sua moglie si era appena messa insieme ad un decoratore d'interni. Dopo 3 minuti e 42 secondi di preparazione, la sua rabbia per il tradimento della donna a suo discapito, ancora scoppia in quella canzone. 
Insomma, quest'uomo ha il potere di farti rivivere il tuo primo amore o almeno le sensazioni dell'amore. E' come un profumo, togli il tappo e insieme alla fragranza ne esce il passato. Mi capita in particolare con 'One more night', che avrò ascoltato due milioni di volte e ogni singola volta, già dalla prima nota, ho i brividi.
Poi mi ricordo come era vestito nel video e sorrido per le sue giacche con le spalline, le cravatte strette e i capelli lunghi, nonostante la sua già evidente stempiatura. Una canzone che racconta, secondo me, un momento che ogni essere vivente ha almeno una volta vissuto e per questo tocca delle profondità abissali.

Il disco comprende altre innumerevoli magnifiche canzoni. Di ognuna si potrebbero scrivere fiumi di parole, ma ho citato solo quelle che mi sono state particolarmente a cuore. Non dimentico, anche in questo caso, di ricordare come sia stato gradito questo CD ricevuto in regalo circa un anno fa, che poichè in formato originale, mi ha dato la possibilità di godere anche della bellezza del packaging.
La copertina ricorda la busta di una lettera, di quelle che proprio negli anni 80 ancora si scrivevano su carta e con l'inchiostro e che poi venivano spedite dall'altra parte dell'oceano, magari proprio per raggiungere un amore impossibile e sulle quali si lasciavano le impronte delle labbra colorate da un rossetto e si scriveva all'esterno 'By air mail'.
Non so..ma non credo che ci potesse essere una copertina più azzeccata per queste canzoni così straordinarie e per un cantautore del cuore come Phil.

        

mercoledì 18 gennaio 2012

E.T. un mito degli anni 80

Credo di essere stata l'ultima persona al mondo nata negli anni settanta ad essere arrivata al 2012 senza aver visto mai una volta il film, ormai cult, di Steven Spielberg E.T. Confesso che tutte le volte che mi chiedevano se l'avessi visto, mi vergognavo un po' nel rispondere che non ne avevo ancor avuto modo.
Ma le vacanze di Natale scorse sono servite anche a questo, a dedicarmi a cose che si lasciano sempre indietro perchè non si ha mai abbastanza tempo per dedicarvisi.
Finalmente non avevo più scuse, qualche settimana fa mi sono seduta sul divano e mi sono gustata questo intramontabile film per ragazzi e adulti, che ha letteralmente segnato un'epoca.
Sì, perchè ormai è sempre più raro trovare dei film in cui ritrovi anche i miti della tua infanzia. Al di là della tenerissima e commovente storia dell'alieno abbandonato sulla terra, nostalgico di casa, che tutti ormai da trentanni conoscono, mi ero dimenticata di come fossero pregni di 'americanità' i nostri sogni di ragazzini. Per esempio, mi ricordo lo sbavare davanti a quelle case americane a due piani, con le camere dei ragazzi con i letti a castello o sopraelevati e il guardaroba grande la metà della stanza, nel quale nascondersi. I muri erano sempre tappezzati di poster di film famosi e sportivi e, soprattutto, le porte si aprivano e chiudevano senza indugio, come quelle delle camere degli hotel.
Ecco da dove mi era arrivato il desiderio di avere una bicicletta Bmx! Gli amici di Elliott cavalcano delle fiammanti e supereroiche Bmx che riuscivano a volare fino in cielo e scorrazzavano per le strade di una Los Angeles da cartolina. Anche la città era già un mito, specie per la mia generazione, che ha vissuto i fasti degli anni 80 e ha emulato e osannato le icone americane che si facevano largo in quel decennio. C'era il mito del frigorifero d'acciaio gigante e dei cartoni del latte formato famiglia, dei telefoni appesi al muro della cucina con il filo che arrivava fino in soggiorno e la vestaglia da camera a quadri, che lo stesso E.T. buffo e ubriaco indossa. Ma c'era anche quella festa, per noi allora sconosciuta, come Halloween durante al quale ci si travestiva come a carnevale e il pallone da football americano, il guantone da baseball. Insomma, si guardavano i film per ragazzi anche per vedere tutti questi begli ammennicoli che da noi arrivavano a stento. Solo molto tempo dopo, l'America ha in iniziato a esportare talmente tanta porcheria da non poterne più e abbiamo cominciato a snobbarla.
Ma almeno il cinema americano alla Spielberg qualche bel ricordo ce l'ha pure lasciato, così come l'infanzia ci lascia tenera e idealizzata ogni immagine solo perchè lontana, solo perchè riposta in quel pertugio ovattato e resistente agli urti, che era la nostra innocenza. 
Anche E.T. era ed è un film innocente. Per questo, ha superato il suo tempo e lo ha lasciato immobile e intoccabile, per questo, è impossibile non commuoversi davanti a quel 'Hooooomee....Phooooneee', che il povero 'nanupede' E.T. impara a dire in una lingua a lui sconosciuta per esprimere la sua nostalgia.
Chissà se poi E.T. è arrivato sano e salvo a casa...

martedì 17 gennaio 2012

Helen Brown - Cleo la gatta 'magica'

I gatti sono meravigliosi. Sono teneri da piccoli, astuti e affascinanti da grandi e indipendenti e sornioni da vecchi. Sanno sempre esattamente come devono essere, con quale dignità affrontare ogni avversità, con quale maestria sottrarsi a ciò che non vogliono fare; insomma sanno sempre come cavarsela. E' straordinario.
Ma quello che più mi piace dei gatti è che la loro personalità è, per lo più, misteriosa. Pensi di conoscere e di aver capito un gatto e poi un giorno ti accorgi che devi ricominciare a studiarlo. Davvero stimolante. Inoltre, sono sempre puliti senza dover mai usare un bagno. Quando ci penso, mi sembra incredibile. 
Nonostante il mio amore per i gatti non ne possiedo alcuno, ma questa è un'altra storia. Il punto qui è la meravigliosa storia che ho avuto la fortuna di leggere, di una gatta 'miracolosa'.
Nel libro autobiografico che Helen Brown ha scritto, intitolato 'Cleo', ho scoperto una storia incredibile. Cleo è una gattina nera, che entra in una famiglia che ha appena vissuto una tragedia. Il figlio minore dell'autrice, Sam, viene investito e ucciso da una macchina all'età di 9 anni poco prima di ricevere, come regalo del suo compleanno, proprio la gattina Cleo, che qualche settimana prima, aveva visto ancora nella cuccia della madre. Quando Sam, però, muore pare non esserci più motivo per mantenere l'impegno di occuparsi di quella gatta. Ma quando Rob, il figlio minore sorride vedendo la gattina, per la prima volta dopo settimane dalla scomparsa del fratello, la madre - Helen Brown - decide di tenerla.
Una scrittura semplice, ma sagace, giustapposta, vivace e mai scontata accompagna il lettore nel proseguo della storia di questa famiglia, che vivrà 23 lunghi anni insieme ad una delle gatte più longeve di cui mi sia capitato di sentire. Impossibile non amare questa storia, forse anche quelli che non amano i gatti si appassionerebbero alla lettura e alla scoperta di questa gatta 'magica', che sembra stabilire una sorta di contatto psico-emotivo con il bambino Sam e pare ricordarne alla famiglia la sua assenza-presenza durante tutta la sua vita.
Cleo è capace di comunicare attraverso gesti, atteggiamenti, reazioni ed è capace di risollevare il morale di questa famiglia caotica e sempre in movimento tra la Nuova Zelanda, dove inizia la storia, l'Europa e l'Australia. E' una sorta di oracolo casalingo, una dispensatrice di giudizi e consigli, è una sorta di vecchia saggia che mantiene la sua sinuosità e la sua aristocraticità fino all'ultima pagina. Una lettura che mi ha riempito il cuore di gioia e mi ha commosso fino alla fine. Consigliatissimo.

lunedì 16 gennaio 2012

Red Hot Chili Peppers - I'm with you

Dalla mia wishlist dei regali di Natale sono riuscita a ottenere qualcosa che mi fa sempre molto piacere possedere: un disco nuovo e originale. Sarà il fascino di un oggetto in via di estinzione, sarà che mi piace ancora infilare il disco stampato nel lettore CD della macchina, sarà che mi piace osservare attentamente il packaging e tutte le varie informazioni contenute nel booklet del disco appena comprato o ricevuto in regalo, ma io continuo a comprare in formato tradizionale i dischi che meritano.
Uno di questi è l'ultimo album dei Red Hot Chili Peppers I'm with you'. Appena ho iniziato ad ascoltare attentamente il disco, mi sono subito stupita del fatto che sia uscito in un periodo invernale. Ovviamente la domanda retorica ha un'unica risposta: motivi di marketing, per ovvie ragioni di concomitanza con il Natale.
Ma lo voglio dire subito: questo è un disco estivo. Un disco che grida Los Angeles da tutte le canzoni, che urla sesso, droga e rock'n'roll come nelle migliori tradizioni dei Peppers e che ti mette allegria se non capisci l'inglese o se non  leggi i testi perchè non hai comprato il disco originale!
Nonostante la lirica sia sempre piuttosto scoraggiante, provocatoria e a tratti anche volgare, quella faccia sempre uguale e baffuta di Kiedis (così come sempre uguali sono anche i suoi muscoli addominali) è sempre molto accattivante. Ormai la maestria dei Red Hot è proprio quella di riuscire a ricomporre infinite volte il loro sound pepperiano e a far divertire sempre tutti. Un disco ben fatto, da macchina, da viaggio e da festa notturna a Los Angeles, che il gruppo non manca mai di citare in qualche modo. Nonostante Jack Frusciante sia nuovamente uscito dal gruppo, la sua assenza è stata ben tamponata. Magari lasciando più spazio all'originalità del basso di Flea, che fa dimenticare i riff di Frusciante dei dischi precedenti, almeno per un po'.
Belli i singoli finora trasmessi in radio 'The adventures of rain dance Meggie' e 'Monarchy of roses' e un po' diverse dal solito 'Factory of faith' e 'Police station', ma anche 'Did I let you know' con quel suo ritmo di salsa. Una delle mie preferite è 'Annie wamts a baby', mentre per curiosità mi piacerebbe sapere come mai l'ultima canzone 'Dance Dance Dance' abbia lo stesso titolo di un certo famoso e bellissimo libro di Murakami...sarà che tutto, soprattutto il bello, è collegato.

domenica 15 gennaio 2012

Collateral e una Los Angeles fatale

Ho visto questo film almeno 5 volte e quando mi chiedono perchè mi piaccia così tanto, rispondo che è tutta colpa di Los Angeles. Quella Los Angeles che tutti immaginano soleggiata e gioviale, dove il giorno dell'occidente idealizzato si spegne per ultimo e quando la notte inizia  la vita - quella notturna - continua ancora più palpitante e frenetica. Quella Los Angeles che invece io ho, nella mia unica visita del lontano agosto 1993, percepito come deserta, sinistra, sospettosa, immensa, ricolma di oscurità non solo di notte, umida e per niente festosa, talvolta agghiacciante, schiva, losca e quasi caduta nell'oceano. Insomma, una Los Angeles che meglio di tutti, nel 2004, uno dei più grandi registi di Holliwood, Michael Mann, ha concepito nel suo grandioso film Collateral. Nonostante la trama sia l'eterno scontro tra il bene e il male e Vincent (Tom Cruise) sia l'emblema dell'uomo malvagio e privo di sentimenti, mentre Max (Jamie Foxx) sia l'autista nero, buono e sfigato, Mann è riuscito a regalare allo spettatore un protagonista insolito: la città.
Turbato ritratto di una LA pericolosa, spietata, alienante e come dice Vincent stesso 'disconnessa', proprio come un'enorme ragnatela a brandelli, la storia si svolge tutta in una notte. Una di quelle notti al neon, dove il cielo schiarito del tramonto lascia presagire un'insonne avventura, dove l'angoscia della solitudine ti attanaglia già quando Vincent, nuovamente dice: '17 milioni di abitanti...eppure ho letto che un uomo è morto sulla metropolitana e ci sono volute sei ore prima che qualcuno si accorgesse del cadavere'. Con queste parole, il feroce sicario, in 'missione di uccidere' sentenzia già la sua fine.
La scena della morte di Vincent infatti, seppure procrastinata, è tuttavia scontata. Nonostante l'ovvietà, è toccante quell'attimo in cui si percepisce il senso dell'inevitabile. In una città dove pure le forze dell'ordine sono più deboli del male, anche Vincent finisce dentro l'enorme frullatore della violenza e le sue ultime parole 'famose' sono: 'un uomo sale sulla metropolitana qui a Los Angeles e muore, pensi che se ne accorgerà qualcuno?'
Come spesso accade per i grandi film, anche la colonna sonora fa la sua parte. Ma il mito della Los Angeles sempre in cerca di guai, questa volta, sovrasta ogni struttura cinematografica. Ottima fotografia protagonista.

venerdì 13 gennaio 2012

Soul surfer e l'elogio ai messaggi positivi

Io sarei morta. Ma più che morta davvero, sarei morta di paura.
Non posso nemmeno pensare di essere alle Hawaii, più precisamente sull'isola di Kawai, uscire una mattina per fare surf insieme a tre amici su una spiaggia da sogno e finire in ospedale più di là che di qua, senza un braccio.
Eppure può succedere, anzi è successo davvero, ma non a me.
'Soul surfer' è un film puro e semplice. Uscito nel 2011, racconta la vera storia di Bethany Hamilton una giovane promessa del surf che a tredici anni viene attaccata da uno squalo. Nonostante la drammatica menomazione che la riduce ad avere un solo arto, Bethany ritorna in acqua poco tempo dopo l'incidente e continua a fare surf.
Il film è tratto dall'omonimo libro biografico della protagonista e vede la partecipazione di due volti noti come Dannis Quaid e Helen Hunt. Le interpretazioni di questi attori sono, in realtà, messi volutamente in secondo piano dalla vicenda stessa. Questo non è un film da oscar o da ricordare tra i migliori della vita, ma è un film che racconta una storia personale vera, in maniera molto positiva e ottimistica senza rischiare di diventare smielata e inverosimile o, peggio ancora, lacrimevole.
E' la protagonista per prima a non piangersi addosso. E' sconvolgente anche solo pensare di come si possa uscire da uno shock tale, come quello di essere attaccati da uno squalo enorme e riuscire a ri-immergere anche un solo piede nell'acqua. Ci vuole coraggio, ci vuole passione, fiducia nelle proprie capacità e ci vuole anche un forte senso di rassegnazione. Quando Bethany riesce a salire sulla tavola da surf con un solo braccio e la famiglia è felice per lei, ci si trova davvero davanti alla grandezza della forza di volontà che l'essere umano può possedere. Come diceva una mia amica russa, l'uomo è davvero un essere che si abitua a tutto.
Si finisce di vedere questo film con una certa sensazione di levità, con un sorriso, con l'idea che grazie al sostegno psicologico e all'amore che può dare una famiglia, si possano superare barriere fisiche ed emozionali a prima vista invalicabili.
Nonostante sia un'estimatrice di film 'cervellotici', questa storia a lieto fine mi ha regalato un paio d'ore di ottimismo e di positività, per cui mi sento di elogiarne gli intenti.

giovedì 12 gennaio 2012

Murakami Haruki e il suo compleanno

Oggi 12 gennaio apro il mio primo post del nuovo anno 2012 celebrando, attraverso questo blog, il compleanno di uno dei miei idoli letterari di cui ho parlato e parlo spesso: Haruki Murakami.
Da un po' di tempo raccolgo informazioni biografiche su questo autore e poichè si sa piuttosto poco di lui, nonostante la sua fama, ho dovuto spulciare parecchio tra vari siti, articoli, recensioni e interviste.
Murakami nasce a Kyoto, ma fino all'adolescenza vive a Kobe e solo successivamente si trasferirà a Tokyo per seguire gli studi letterari, che interromperà poco dopo per sposarsi e per aprire un locale di jazz bar; decisione presa in seguito alla sua passione per la musica. Proprio le notti passate a lavorare al locale saranno, per Murakami, momento di creazione per le sue prime opere letterarie. In questo mi ricorda, ad esempio, Franz Kafka che di giorno lavorava alle Agenzie Generali e di notte scriveva, perchè a suo stesso dire, non poteva farne a meno. 
Ci sono parecchi dati biografici che mi incuriosiscono. Tra questi c'è il racconto di come Murakami venne folgorato dalla decisione di diventare scrittore durante una partita di baseball. Sarà che me li vedo proprio i giapponesi con il guantone e la mazza da baseball, sarà che mi vedo Murakami con i popcorn e la coca cola seduto sugli spalti illuminato da una luce soprannaturale, come una gigantesca mano che proviene dall'alto, che gli infonde il dono della scrittura. E' un'immagine surreale, proprio come lo saranno le sue opere.
E' del 1979 la sua prima pubblicazione 'Ascolta la canzone nel vento' al quale segue 'Flipper 1973'.
Ma il suo primo vero romanzo, forse anche il più dimenticato è del 1982 'Nel segno della pecora', quello che apre le danze e che ci svela le arterie principali dello scrittore: la subrealtà, il modello di uomo murakamiano alienato, senza lavoro e attratto da donne bizzarre, il gatto senza nome, i personaggi con nomi stravaganti, l'eroe senza identità, la ricerca, la sparizione oltre il confine reale. E' tutto già lì, in quel primo romanzo eppure il bello ancora deve venire perchè nel 1985 esce 'La fine del mondo e il paese delle meraviglie', dove l'irrealtà è tutta dentro la mente del protagonista e, con questo romanzo, si capisce come Murakami sia in grado di rielaborare la sua personale percezione del surreale fino a dove può spaziare senza mai risultare ripetitivo, nonostante l'attaccamento a certe tematiche. Anzi, da qui parte la dipendenza alla lettura di Murakami, di cui si sa che i suoi lettori patiscono.
Non c'è libro di Murakami senza musica. D'altronde la vita dell'autore stesso è legata ad essa, non a caso aprì quel locale, chiamato 'Peter Cat' e non  a caso dichiara di possedere circa diecimila vinili di musica jazz e classica. Un collezionista, un estimatore, un conoscitore di musica. Tra questa, nella sua adolescenza, non poteva mancare quella dei Beatles al quale l'autore dedica indirettamente il libro che lo consacra al successo 'Tokyo blues Norwegian Wood'. Con tre milioni di copie vendute in Giappone, nel 1987, Murakami diventa un cult raccontando la società giapponese degli anni 60 e a tratti anche la sua vita, scandita dalla musica di quei tempi, ma anche dai tragici eventi autobiografici narrati.
Segue un altro monumentale romanzo 'Dance dance dance', dove ritornano i fantasmi dell'uomo pecora nascosto nell'hotel chiamato delfino e il mistero diventa forse realtà. E' la fine; non si può più fare a meno di leggerlo e nonostante per svariati anni ci siano solo pubblicazioni di racconti, 'A sud del confine a ovest del sole' del 1992 'L'elefante scomparso' del 1993, essi sono magnifici preludi ad un romanzo mastodontico come 'L'uccello che girava le viti del mondo' del 1995.
Se dovessi proprio dire che cosa non mi piace di Murakami direi 'Underground', che più che una scrittura è un documentario ispirato all'attentato alla metropolitana di Tokyo scritto nel 1997.
Seguono 'La ragazza dello Sputnik' del 1999, di cui mi ha sempre divertito il titolo, perchè mi ispira qualcosa di ovviamente sovietico e l'altra raccolta di racconti dedicati al terremoto di Kobe ' Tutti i figli di dio danzano' del 2000.
Gli ultimi racconti, tra l'altro magnifici, sono quelli di 'La donna dormiente e il salice piangente'  del 2002 al quale fa seguito 'Kafka sulla spiaggia' (di cui non mi sorprende il nome) e solo sei anni dopo nel 2008 esce un altro pezzo fortissimo con 'Afterdark'. Gli ultimi romanzi sono 'L'arte di correre', che è in realtà un saggio biografico e il recente '1q84'.
Mi diverte il personaggio Murakami, egli è apparentemente l'opposto dei suoi personaggi. E' disciplinato, si alza alle 4 del mattino, va a correre, ascolta musica e scrive fino a mezzogiorno. Mi sembra quasi un soldatino, con quel fisico da podista che si è fatto per combattere una certa propensione alla pinguedine da vita sedentaria e da astinenza da fumo di sigarette. Poi a volte penso a quella scrivania immensa di tre metri e il divano messo lì di fianco dove ogni pomeriggio lo scrittore si abbandona ad una sana siesta, mentre ascolta la musica soffusa di Schubert. Deve essere un tipo simpatico un uomo che ama così tanto i gatti! Ci sono gatti ovunque nei suoi romanzi e spesso sono elementi chiave. Non posso non sorridere pensando a quello che ha deciso di chiamare 'sardina'.
A un passo dal Giappone, alle isole Hawaii, si trova una delle tre case di Murakami. Stamattina presto sarà uscito a correre, avrà preso la strada meno battuta, ma comunque avrà continuato a tenere d'occhio il mare e forse il suo orologio da polso digitale. Nelle orecchie vecchio jazz da lui così amato e per festeggiare il suo compleanno, avrà pensato magari ad una nuova trama da dare in pasto alla sua fantasia, un regalo per sè e per  tutti noi lettori.